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I partiti delle riforme (e la riforma dei partiti)

Paolo Pombeni - 26.08.2014
Pippo Civati

Riprende la vita politica dopo la pausa ferragostana e la questione in campo è, ovviamente, quella delle riforme. Renzi deve stringere, sia per sottrarsi all’accusa di essere uno che promette molto, ma conclude poco, sia per ottenere quella credibilità internazionale che gli permetta di trovare le sponde necessarie per evitare di finire vittima di una speculazione pronta a gettarsi sulle difficoltà economiche dell’Italia.

Per il Consiglio dei Ministri di venerdì 29 agosto sono annunciate grandi novità, ma il premier sa benissimo che quella è ancora la fase degli annunci. Perché i piani diventino operativi ci vogliono i tempi dei passaggi parlamentari, che non sono mai rapidi, dunque perché gli annunci siano almeno credibili bisogna che si crei una aspettativa di sicuro approdo legislativo nonostante le baruffe che potranno crearsi alle Camere.

Renzi questo lo sa benissimo ed infatti sembra stia approntando una strategia parzialmente nuova. In sostanza punta a ricompattare il PD mettendo fine alle tensioni interne, in modo da contare su una forza parlamentare compatta che gli consenta di manovrare agevolmente non solo con le componenti della sua maggioranza, ma anche con l’opposizione di Forza Italia.

La manovra passa per un recupero di rapporto con l’opposizione interna ex bersaniana e, forse, anche con Civati (che però non ha una gran forza). Questa strategia è imperniata sulla gestione delle prossime scadenze elettorali regionali, che vedono due regioni (Calabria ed Emilia-Romagna andare al voto già in autunno e sette la prossima primavera). In quasi tutti i casi si assiste alla rinuncia al “cambiare verso” per accordi invece che puntano al recupero delle tradizionali classi dirigenti del partito. Intendiamoci: non si tratta più dei vari D’Alema, Bindi e compagnia, rottamati e rimasti generali in pensione privi di esercito. Si tratta di recuperare tutte le componenti cresciute negli apparati del DS-PD, gli ex giovani di bottega dei vecchi leader, che oggi sono già passati con rapida conversione fra i cosiddetti “renziani della seconda o terza ora”, o che, pur rimanendo formalmente con Cuperlo si sentono membri della nuova “ditta”. Basta scorrere le indiscrezioni, e non solo, riportate dalla stampa sulle battaglie per le candidature a “governatore” per scorgere con chiarezza i sintomi di questa dinamica.

Ancora una volta a farne le spese sarà la retorica delle “primarie”, ma sono meccanismi che non hanno dato che raramente prova di essere strumenti per rinnovare i percorsi di selezione delle classi dirigenti del partito. Renzi è riuscito nell’impresa perché ha costretto il PD a piegarsi all’apertura verso l’esterno, sostenuta da una gran campagna mediatica (oltre che indubbiamente dalle sue capacità di comunicatore e dalla sua tenacia di accettare i tempi lunghi). Oggi nel gruppo dirigente del PD non c’è interesse a correre i rischi che quella strategia comporta.

Le contingenze obbligano ad evitare tensioni interne, e per di più sono tali da non far correre rischi, almeno apparentemente. Le misure che il governo deve varare non sono affatto pacifiche e fanno prevedere resistenze palesi ed occulte: si pensi solo al problema della revisione delle spese, che avrebbe già dovuto essere operante in buona parte, ma che è stata aggirata in vari modi da amministratori  e politici poco disponibili a rinunciare ai loro margini di… potere. Per questo Renzi ha bisogno di un iter parlamentare meno tormentato di quello sulla riforma del Senato e dunque di un PD compatto che costringa a non debordare il nuovo centro di Alfano e compagni (l’unica componente con qualche peso nella maggioranza) e che gli consenta di usare, senza troppi costi, la stampella di FI (che ormai ha capito di non avere spazio come opposizione totale).

Se questo si verificherà, le opposizioni di Grillo e della Lega, nonché qualche ghiribizzo dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, saranno solo un fastidio noioso e l’operazione riforme potrà cogliere qualche successo, perché anche le opposizioni delle varie lobby, prive di sponde parlamentari significative, saranno depotenziate.

Quale è però il prezzo che questa strategia comporta? Nell’immediato ci può essere un non piccolo danno di immagine sul nuovo PD come propulsore del rinnovamento dei gruppi dirigenti. Renzi e i suoi pensano probabilmente di vincere facile alle regionali, perché, salvo forse la Lega nel Veneto, da altre parti dei veri competitori alternativi non ce ne sono più. Sottovalutano però il rischio dell’astensionismo, che verrebbe incentivato da questa politica dei vertici decisi con accordi fra correnti. Renzi alle Europee ha superato il 40% dei suffragi, ma su un astensionismo di quasi metà del corpo elettorale. Allora quella quota di astensioni venne considerata fisiologica. Se si riproducesse alle regionali sarebbe un duro colpo.

In secondo luogo l’accordo attuale sulle regionali in realtà ristrutturerebbe le correnti all’interno del PD, ricreando feudi di potere, ancora più forti che in passato, visto il ruolo che le regioni avranno nel futuro Senato. Se qualcuno ha in mente la vicenda delle dinamiche di questo tipo all’interno della vecchia DC, potrebbe trarne utili insegnamenti.

Insomma: benissimo garantire il mega-partito delle riforme, ma se questo andasse a scapito della riforma dei sistemi oligarchici di selezione delle classi dirigenti da parte dei partiti, alla fine si comprometterebbe anche lo slancio delle riforme.

Anche questa è una storia già vista.