Verso la “nuova Turchia”: potere e dissenso
Il 10 Agosto 2014, Recep Tayyip Erdogan, già Primo Ministro della Repubblica turca, vince al primo turno le elezioni presidenziali in Turchia. Primo presidente eletto direttamente dal popolo, diventa capo dello stato con il 51,8% dei voti. Nei giorni successivi indica come suo successore alla guida dell’esecutivo di Ankara e del partito della Giustizia e Sviluppo (AKP), il suo fedelissimo Ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu. La coppia Erdogan - Davutoglu guiderà dunque la Turchia verso le elezioni parlamentari del 2015 e secondo le ambizioni di Erdogan verso il 2023, centenario della Repubblica turca.
La “nuova Turchia” di Erdogan
L’11 Agosto Erdogan, appena eletto, tiene ad Ankara, il suo “balcony speech”, dichiarando “l’inizio di una nuova era” e ponendo fra gli obiettivi prioritari della “nuova Turchia” una nuova costituzione. L’obiettivo prioritario di Erdogan è quello di sostituire la democrazia parlamentare con un sistema semipresidenziale. Obiettivo che spera di raggiungere con una vittoria del suo partito alle elezioni generali del prossimo anno e con un rafforzamento della maggioranza parlamentare. Nei discorsi di Erdogan è ricorrente il richiamo al “nuovo” e nell’ultima decade il “nuovo” in Turchia è stato un affare unidimensionale e quasi assoluto, legato esclusivamente alle scelte politiche offerte o imposte da Erdogan e dal suo partito. Ma “il nuovo” in Turchia è riconducibile ancora a Erdogan e al suo partito? I 12 anni di governo dell’AKP, dal 2002 ad oggi, hanno portato al paese una indubbia modernizzazione e crescita economica, industriale e tecnologica, triplicando il reddito pro capite e portando la Turchia al 16° posto fra le economie mondiali. Fra i cambiamenti sociali, vi è stata l’ascesa di una nuova classe media di origine anatolica, artefice del successo dell’AKP e principale beneficiaria del network economico, finanziario e commerciale creato dall’AKP con il mondo arabo e i paesi vicini. Il continuo consolidamento del potere dell’AKP ha accresciuto poi la convinzione che l’aspirazione alla “grandezza turca”, avrebbe dovuto esprimersi sia spazialmente sia visivamente, tramite i grandi progetti di infrastrutture, costruzioni imponenti e centri commerciali. Tutto questo si è realizzato con una crescente concentrazione del potere politico nelle mani dell’AKP, con un forte controllo sull’economia, sull’apparato burocratico e giudiziario, con pesanti censure sui media e in generale sulla libertà di espressione e con un crescente richiamo ai valori religiosi dell’Islam nella vita quotidiana dei cittadini turchi. Parallelamente l’interesse verso il completamento del processo di democratizzazione interno è diminuito e all’interno del paese è aumentata la polarizzazione sociale e il malcontento di una parte della società civile. In politica estera, un eccessivo coinvolgimento della Turchia nelle dinamiche interne dei paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente e l’incapacità di presentarsi come un affidabile mediatore regionale, hanno gradualmente diminuito le aspettative del “modello turco”, come esempio vincente di Islamismo, modernizzazione e democrazia. Così, il 28 Agosto Erdogan assumerà le nuove funzioni di capo dello Stato, ma “il nuovo” che promette è davvero poco attrattivo. Il partito di Erdogan avrebbe potuto accogliere le istanze di riformismo e di completamento del processo di democratizzazione interno al paese e portare la Turchia verso una matura e completa democrazia. Intraprendere questo cammino avrebbe significato costruire una nuova forma di interazione sociale, culturale e politica, capace di andare oltre la tradizionale polarizzazione della società turca, verso nuove possibilità di crescita e sviluppo sociale. Ma la spinta autoritaria di Erdogan e la repressione verso ogni forma dissenso, fanno pensare soltanto ad una occasione mancata.
La “nuova Turchia” del dissenso
Eppure in Turchia una nuova generazione sta crescendo oltre i propri governanti e sta negoziando nuovi modi di vivere insieme, che non appartengono a nessuna delle categorie storiche precedenti. La vera novità consiste nella proposta di una ridefinizione della società turca e nella ricerca costante e quotidiana di negoziare, contestare e ripensare le norme e le convenzioni esistenti, alla ricerca di una nuova forma di interazione che sia inclusiva, pluralista e partecipativa. L’espressione più evidente di questa urgenza sociale, civile e culturale è stato il movimento pubblico di protesta e di resistenza civile di Gezi Park. La portata innovativa del movimento di protesta va individuata nella proposta di un nuovo e ancora inesplorato paradigma di convivenza sociale e politica in grado di superare la precedente versione dell’autoritarismo kemalista e al tempo stesso di denunciare il più recente autoritarismo paternalistico islamico. Le proteste del maggio-giugno del 2013 e quelle successive, hanno chiaramente inciso sulla necessità di decodificare la “Turchia di Erdogan”, che fino a poco tempo fa sembrava non avesse alcuna opposizione nel suo percorso di crescita e di potere. Il dissenso in Turchia sembra proporre un rinnovato senso della cittadinanza, capace di immaginare nuovi scenari di partecipazione democratica. In tale contesto, gli spazi pubblici, reali e virtuali, acquistano una nuova centralità. Lo spazio pubblico diventa la nuova arena per la “battaglia delle idee” e il nuovo terreno di scontro fra controllo e libertà, fra autoritarismo e pluralismo, e al tempo stesso diviene il luogo per la sperimentazione, l’innovazione e il cambiamento. Il movimento di protesta sembra superare il “nuovo” rappresentato dal decennio di governo dell’AKP e costituisce un momento di svolta della storia attuale della Turchia e della sua società. Lo scopo è quello di creare lo spazio per un dialogo a cui tutti possono partecipare, senza esclusioni. Questa dovrebbe essere la vera aspirazione della “nuova Turchia”: la spinta verso la “società aperta”, una società pluralista, capace di ampliare le opzioni, oltre il monopolio del controllo da parte di un gruppo, di una ideologia, di un sistema.
* E' assegnista di ricerca in Storia internazionale all’Università di Pavia e direttore dell’International Center for Contemporary Turkish Studies di Milano
di Paolo Pombeni
di Maurizio Cau
di Carola Cerami *