I due anni di Conte a Palazzo Chigi
Fra poco più di una settimana il presidente del Consiglio potrà festeggiare il secondo anno a Palazzo Chigi. Vi entrò il primo giugno del 2018, in seguito ad un'estenuante trattativa post-elettorale, come "primo non fra pari" ma quale "garante del contratto" stipulato fra Cinquestelle e Lega. Al suo esordio, Conte era sostanzialmente il vice dei suoi vicepresidenti Di Maio e Salvini: avrebbe esercitato questo ruolo per parecchi mesi (tranne che durante la trattativa con l'Ue per ottenere flessibilità sui conti pubblici e il famoso 2,04% di deficit per il 2019), finché non si accorse, giusto un anno fa, che il suo governo non avrebbe avuto lunga vita. La Lega aveva ormai sottratto metà dei voti al M5s e ribaltato i rapporti di forza nella maggioranza, ma soprattutto c'era una premiership di fatto esercitata da Salvini in modo neanche troppo nascosto. Fu in quel momento, dopo aver compiuto un apprendistato di un anno, che Conte capì una cosa fondamentale: i Cinquestelle, che erano in una profonda crisi di identità e di consenso, dopo le elezioni europee, avevano bisogno non più di un garante, ma di un leader che sapesse e potesse contrastare il capo leghista. Quando si arrivò allo scontro e alla rottura voluta da Salvini, fu Conte a prendere le redini dei Cinquestelle grazie al discorso col quale attaccò con un'asprezza senza pari il suo vicepresidente leghista, seduto a poca distanza. Il Conte due - non solo come governo, ma come modo di interpretare il ruolo di presidente del Consiglio - nacque in quelle circostanze. Un M5s allo sbando, destinato - in caso di elezioni anticipate chieste da Salvini - ad essere decimato nelle urne, si affidò senza condizioni a Conte, tanto da porre al Pd la premessa irrinunciabile - per dar vita al governo "giallorosa" - di confermare il presidente del Consiglio, nonostante la richiesta di forte e netta discontinuità avanzata da Zingaretti. La successiva navigazione del governo, almeno fino a fine febbraio, ha dimostrato che Conte è riuscito a ritagliarsi un triplice ruolo: di garante del patto quadripartito di governo; di tutela degli interessi del M5s; di premier sempre più in sintonia con il Pd e con le istanze europeiste tipiche del centrosinistra (e del Quirinale). Con questo equilibrio - che è valso al presidente del Consiglio l'appellativo di "democristiano", ma gli ha fruttato anche l'avversione di un Renzi che non vuole intrusi nell'area centrista - l'inquilino di Palazzo Chigi ha gradualmente saputo mutare e adattarsi ai tempi e alle circostanze: cosa non facile, considerando che è stato l'unico a presiedere di seguito un governo populista composto da sovranisti e grillini e poi un Esecutivo sostanzialmente di centrosinistra con qualche venatura pentastellata (molto sfumata, peraltro; inoltre, la componente di destra del M5s, in questo ultimo anno, ha avuto ben poco spazio politico, anche se i decreti Salvini sull'immigrazione non sono mai stati cancellati). Poi è arrivata l'emergenza sanitaria, nella quale Conte ha sperimentato una superfetazione dei poteri di Palazzo Chigi, con i dpcm (inizialmente giustificati dalla crisi, poi tollerati, infine sostanzialmente in via di abbandono, in questa nuova fase) e con una presenza mediatica non solo costante, ma forse persino sovrabbondante. Tutto ciò, unito all'azione dei tecnici che gli ha assicurato una copertura sul piano degli interventi drastici che di volta in volta dovevano essere adottati, gli ha procurato una notevole fiducia popolare e un ragguardevole consenso nei sondaggi. È stata però la fase due, già dal suo contrastato e stentato avvio, ad affievolire l'astro del presidente del Consiglio: prima con una conferenza stampa a dir poco non brillante, poi con il prevalere dei presidenti delle regioni i quali (spinti dalle istanze del territorio, in primo luogo dai rappresentanti delle categorie economiche, desiderose di riaprire tutto il più presto possibile) hanno costituito a lungo una sorta di robusto "contropotere". Quest'ultimo, nello scorso fine settimana, ha sostanzialmente costretto Conte a dare "via libera" ad un sistema nel quale lo Stato delinea un quadro di misure sanitarie e precauzionali mentre gli enti locali lo allentano o lo restringono a seconda delle esigenze. È prevedibile che in questa fase il governo - che traballa non poco - e in particolare il presidente del Consiglio, debbano "farsi giunco" di fronte a situazioni mutate. In uno scenario così complesso, Conte è sicuramente il più abile interprete di un approccio di questo tipo, essendo passato dalla quasi invisibilità del 2018-'19 al protagonismo del 2020, riuscendo sempre a trovare un accomodamento con tutti i partners di governo (prima M5S e Lega, poi anche Pd, LeU, Italia viva, senza disdegnare le attenzioni che - si dice - rivolge a qualche potenziale "responsabile" pronto a sostenere la maggioranza). Non sappiamo se nella fase tre - quella della crisi economica e occupazionale che sta per abbattersi sul Paese, sperando che non sia accompagnata da una seconda ondata del Covid 19 - Conte possa restare (lui sì, meglio di Berlusconi, "concavo e convesso": per questo piace ad alcuni tanto quanto è repulsivo per altri) a Palazzo Chigi con gli stessi alleati o con differenti combinazioni parlamentari multicolori. È un fatto, però, che a pochi è capitato di restare alla presidenza del Consiglio per ben due anni di seguito e in condizioni non certo tranquille o di "ordinaria amministrazione": frutto, nel caso suo, di una dose di virtù e di una di fortuna.
di Luca Tentoni
di Stefano Zan *
di Claudio Ferlan