Geithner, Berlusconi e la sindrome del complotto
Verrebbe quasi voglia di ringraziarlo, mister Timothy Geithner. Dopo mesi di scie chimiche, microchip sottopelle e altre diavolerie pentastellate, un complotto vecchio stile rischia persino di provocare un bagno di realismo. Tutti i canoni del genere compaiono in dodici righe del voluminoso tomo a cui l’ex Segretario del Tesoro statunitense ha affidato la propria versione della crisi finanziaria del 2008 e l’apologia del suo (contestato) operato per contenerla. Gli ingredienti del thriller: nel 2011 non meglio precisati “funzionari europei”, inquieti per lo stato delle finanze italiane, avrebbero cercato di persuadere Geithner e il suo governo a condizionare la concessione di un prestito del Fondo Monetario Internazionale all’Italia alle dimissioni del Primo Ministro Berlusconi. Con pathos degno di una fiction, l’amministrazione Obama avrebbe infine concluso di non potersi macchiare “del sangue” (sic) di Berlusconi. Un quadro a tinte forti ma poco chiare, se poco sopra Geithner attribuisce ad altrettanto vaghi “leader europei” contraddittorie richieste di aiuto nel moderare l’“avara” Angela Merkel. Oltre la teatralità del racconto, emerge la tradizionale difficoltà delle amministrazioni statunitensi a dialogare con un’Europa in cui non è mai chiaro chi parli a nome di chi: da decenni ogni sano confronto transatlantico è pregiudicato dalla dualità costante e competitiva tra governi nazionali e autorità di Bruxelles, ovviamente a spese del Vecchio Continente.
Una storia quanto meno confusa
Non ha mancato di replicare a Geithner il Presidente della Commissione Europea Barroso, evidentemente impegnato a rendere memorabili (in negativo) i suoi ultimi mesi in carica. Colpo di scena: erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela del Fondo Monetario Internazionale, mentre “noi (la Commissione?) siamo stati quasi i soli a dire che non doveva succedere”. Dunque in tanti si prodigavano in quell’autunno del 2011 per salvare il soldato Berlusconi, il quale ha ora l’opportunità per rilanciare la propria versione: Obama “si comportò bene”, la Commissione fu meno che una comparsa, e i cattivi presero le fattezze del duo Merkel-Sarkozy (en passant, alleati di Forza Italia nel Partito Popolare Europeo). I due avrebbero subdolamente tentato di indurre il governo italiano ad accettare un intervento del Fondo Monetario Internazionale rigettato da Berlusconi, consapevole che esso avrebbe ridotto l’Italia a una “colonia” dello straniero. Tralasciamo per un attimo le tante incongruenze, per considerare quanto la vicenda ci insegna sulla politica italiana. Da sempre essa è attratta inesorabilmente da trame irriducibili alla ragione, che prendono il sopravvento su processi spesso di evidenza e linearità dirompenti. Certamente le cancellerie internazionali nutrivano apprensione per lo stato delle finanze e del governo in Italia, non senza che questo influenzasse il cambio di governo. Berlusconi ne fu vittima? Difficile definirlo tale, dopo che all’epoca confermò l’assoluta volontarietà delle proprie dimissioni per “senso di responsabilità” e appoggiò a lungo il suo successore Mario Monti.
Ricordare il passato aiuta
La vicenda nel complesso pone interrogativi importanti sulla regolarità e l’efficacia dei processi democratici e sui limiti della sovranità nazionale? Ben vengano serie discussioni in merito, purché guardino alla luna e non al dito che la indica. Per decenni l’azione deliberata delle leadership politiche italiane ha legato il paese a processi di collaborazione e integrazione europea ed euroatlantica, alle cui logiche esse sono spesso chiamate a rendere conto. Chi ricorda il precedente storico del 1976, esclusi pochi storici e giornalisti? Allora autorevoli volontà politiche sembravano convergere verso il cosiddetto “compromesso storico”, una collaborazione governativa (ancorché vaga) tra DC e PCI. Tanto bastò per allarmare le cancellerie transatlantiche, che riunite a Puerto Rico per il secondo G7 della storia elaborarono una controffensiva d’emergenza: se le autorità di Roma aspiravano a un prestito del FMI per affrontare la crisi economica, esse dovevano accettare un piano di interventi strutturali sull’economia italiana elaborato dallo stesso organismo internazionale. Superfluo concludere che questo si avvicinava a una sorta di commissariamento delle politiche economiche del governo Andreotti, che pure si giovò del sostegno esterno del PCI. Ancora più superfluo aggiungere che lo stesso Presidente del Consiglio, nel segreto di colloqui riservati, accolse di buon grado la soluzione, che gli permetteva di tenere gli scomodi alleati ai margini del processo decisionale, al contempo scaricando pubblicamente ogni responsabilità sul “vincolo” internazionale contratto con il prestito. Si dirà che erano altri tempi, di Guerra fredda e di un “impero del male” da contrastare senza quartiere; e tuttavia legittimare una volta il principio per cui il fine giustifica i mezzi non garantisce la possibilità di porre in seguito dei limiti discrezionali alla sua applicazione.
Si prenda dunque atto e si discuta dei limiti posti dall’internazionalizzazione alla politica nostrana, ma senza far passare la norma per emergenza golpista. Ricordarsene a intermittenza fa sorgere quantomeno il sospetto di forti amnesie storiche. O di malafede, a dieci giorni dalle elezioni che rischiano di segnare il tramonto politico della “vittima” di quel complotto.
di Giovanni Bernardini
di Giulia Guazzaloca
di Alessandra Bitumi *