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Eppur si muove

Paolo Pombeni - 15.04.2014
Il pendolo di Galileo

Sta davvero cambiando la politica italiana? La risposta positiva non nasce da una conversione a Renzi folgorati su qualche improbabile via di Damasco, ma dall’osservazione di quello che ci sta intorno. Perché, piaccia o no, al momento sembra proprio siano andati in crisi non solo i vecchi riferimenti della cosiddetta Prima Repubblica , ma anche quelli con cui si era cercato di rimpiazzarli nella altrettanto cosiddetta Seconda.

Il segnale di solito inequivocabile di queste svolte è un certo cambio generazionale. In più, ed anche questo è un fenomeno tipico dei momenti di transizione, c’è la fuga dalla politica di una quota rilevante della cittadinanza come mostrano i numeri impressionanti dell’astensionismo elettorale.

Che l’Italia sia un paese spaesato ci sembra difficile negarlo. In un contesto in cui ogni parte in commedia si fabbrica i suoi guru di riferimento, non contestabili né criticabili, in cui siamo invasi da gente che autenticamente “dà i numeri” (tanto nessuno li controlla), in cui contemporaneamente si anela ad avere slogan politici tranchant e ci si lamenta perché la politica solo quelli sa produrre, non è semplice tracciare una mappa che aiuti ad orientarsi.

Certo, se, come diceva il buon Mao, le rivoluzioni non sono pranzi di gala, i passaggi epocali non sono la messa in scena di saggi di filosofia politica. Come a quelli che vogliono occuparsi di poveri la prima cosa che viene insegnata è che i poveri veri non assomigliano a quelli descritti nelle fiabe, a chi si misura col travaglio di questo momento andrebbe ricordato che la cosiddetta circolazione delle elite non si verifica come una successione fra Accademici dei Lincei. Fra il resto non lo erano coloro che oggi stanno perdendo centralità, difficile pretendere che debba fregiarsi di qualcosa di simile chi lavora per succedere loro.

Il cambiamento che si sta verificando vede soprattutto la dissoluzione del tradizionale quadro delle nostre aggregazioni politiche. Da tempo era andata in crisi la ripartizione per subculture che esisteva all’origine della nostra repubblica: mondo cattolico, mondo social comunista, mondo laico, mondo dei sopravvissuti alla dissoluzione del potere fascista, erano formule sulla cui inadeguatezza aveva già scommesso Silvio Berlusconi nella crisi degli anni Novanta del secolo scorso.

Con una certa lungimiranza egli aveva cercato di semplificare lo scontro presentandolo come un cozzo fra “moderati” e “comunisti”. In quest’ultima categoria aveva messo tutti quelli che puntavano, sia in maniera razionale che in maniera utopica, ad una revisione, a favore di una sola parte (i “puri”, autoproclamatisi tali), delle regole del gioco che avevano presieduto alla distribuzione del potere nell’Italia del ventennio precedente.

Negare che quella scelta sia stata vincente per Berlusconi e per i suoi sarebbe miope. Credere che possa continuare ad esserlo oggi significa essere ciechi, per la semplice ragione che quella distribuzione del potere era frutto di un sistema che, da una parte e dall’altra, aveva portato benessere, ma la cui conservazione avrebbe poi finito per metterlo in seria crisi se non proprio per distruggerlo.

Ecco allora che è nata una domanda prepotente di rovesciare il tavolo. Ha preso la forma dell’affidarsi fideistico al Messia-Grillo, che urla e gesticola come deve fare ogni buon sciamano, e che non può sporcarsi le mani nel concreto, perché si vedrebbe che lui non sa fare miracoli. Ha preso altresì la forma di una rivolta della base elettorale del PD (una cosa diversa dalla militanza nel partito) contro la sua tradizionale classe di “mandarini”, quando quella base ha deciso , dopo un percorso accidentato, di affidarsi ad un leader come Renzi che fosse perfino percettibilmente estraneo alla tradizione della “sinistra” novecentesca italiana, quella che aveva i suoi versanti comunisti, laici e cattolici, ma che condivideva un orizzonte culturale di fondo.

Fa riflettere che di fronte a questa sfida il partito dei “moderati” non sia riuscito a ritagliarsi un vero spazio. Certo Forza Italia si è autodistrutta nella venerazione di un Berlusconi sul viale del tramonto, ancora però tanto forte da imporre alla sua creatura la logica della corte di Bisanzio e delle lotte fra i suoi pretoriani. Però chi ha capito l’inutilità di questa deriva non è stato in grado di arginarla. Non l’hanno fatto i transfughi di Alfano e compagnia, a cui manca la capacità di imporsi come ricostruttori del “moderatismo” (categoria assai poco utile in tempi di cambiamenti a cui tutti capiscono non sia possibile sottrarsi). Men che meno l’hanno potuto fare i frammenti di classe dirigente che hanno cercato rifugio nella duplice mitologia del “centro” e della “tecnocrazia”, perché per la leadership vale quel che don Abbondio diceva per il coraggio: se uno non ce l’ha, non è che se la può dare.

Così c’è poco da illudersi: andremo incontro ad una svolta inevitabilmente complessa, con tratti confusi, che avrà bisogno di tempo per rifondare un nuovo quadro di equilibrio politico. Se ci riuscirà, sarà da vedere, ma quel che è certo è che il suo fallimento non farebbe risorgere gli equilibri del passato, ma solo aumenterebbe le difficoltà in cui ci dibattiamo.

Intanto cercar di capire cosa sta succedendo, invece di seminare invettive e di invocare la necessità del solito “ben altro”, è un esercizio indubbiamente utile.