Macedonia: verso una soluzione della crisi?
La Macedonia, nota ufficialmente nelle organizzazioni internazionali come “ex repubblica jugoslava di Macedonia”, da alcuni mesi sta vivendo una profonda crisi politica. Il partito d’opposizione, il partito socialdemocratico guidato da Zoran Zaev (SDSM), contesta il governo guidato da Nikola Gruevski, leader del partito conservatore (VMRO-DPMNE). Dallo scorso maggio, si è giunti alla mobilitazione delle piazze. La comunità internazionale cerca di mediare una via d’uscita pacifica dalla crisi.
Breve genesi di una crisi largamente prevedibile.
Di tutte le ex repubbliche, quelle che più assomigliano, nella forma di governo, alla Jugoslavia di Tito, sono la Bosnia ed Erzegovina e la Macedonia. In effetti, entrambe le repubbliche, come la federazione titina, sono costituite da società divise, amministrate da partiti fondati simbolicamente sull’etnia, con un’economia fondata sul prestito internazionale e sul debito, in un contesto di profondo clientelismo e corruzione, ove la tessera di un partito può essere fondamentale nell’ottenere un lavoro nel settore pubblico. Per quanto le ultime caratteristiche citate non siano ovviamente un’esclusiva dei Balcani, certamente è lì che destano le maggiori preoccupazioni. In altri termini, oltre ad una situazione economica relativamente stagnante e ad un tasso di disoccupazione molto elevato (fenomeno anch’esso diffuso nella regione), la Bosnia e la Macedonia condividono anche divisioni politiche tra comunità etniche e nazionali, peraltro istituzionalizzate dai rispettivi accordi di pace (Dayton per la Bosnia, e Ocrida per la Macedonia). In altri termini, il regime vigente in questi Paesi è una forma di consociativismo etnico.
La Macedonia assieme alla Slovenia fu l’unica repubblica jugoslava che non cadde preda di un conflitto armato negli anni immediatamente successivi alla dissoluzione della federazione, nonostante le premesse non mancassero. Conobbe tuttavia, nel 2001, uno scontro di una certa gravità tra irredentisti armati albanesi e le forze di sicurezza di Skopje. La Comunità internazionale mediò il conflitto, strappando alla controparte macedone la promessa di garantire maggiori diritti alla minoranza albanese.
Le prospettive di integrazione nell’UE e nella NATO della Macedonia, prospettive che avrebbero dovuto spingere i governi di Skopje ad accelerare le riforme interne, sono state frustrate dai vicini. La Grecia ancor oggi si oppone al nome ufficiale dello stato macedone, perché teme che Skopje possa accampare delle pretese territoriali su una regione settentrionale della Grecia stessa. Del resto, la stessa Bulgaria, vede nella lingua macedone una variante dialettale di quella bulgara. I Macedoni cosiddetti “slavo-ortodossi” si sentono così accerchiati all’esterno dai vicini, e all’interno dalla nutrita minoranza albanese. Conseguentemente, i timori e le aspirazioni dei conservatori macedoni hanno trovato espressione politica nel governo di Gruevski (nato nel 1970), in carica dall’aprile 2014, sebbene il suo partito, VMRO-DPMNE abbia vinto le elezioni, a più riprese, dal 2006.
La distanza dal traguardo dell’adesione europea, percepita dalla classe politica e dai cittadini, ha prodotto in questi ultimi anni una certa irresolutezza, sfociata nella mancanza di riforme. Come se ciò non bastasse, a partire dalle ultime elezioni legislative dello scorso anno il principale partito d’opposizione, lo SDSM di Zaev, ha scelto di abbandonare il parlamento denunciando brogli alle urne. Una parte dei cittadini macedoni, dagli studenti universitari a varie espressioni della società civile, ONG incluse, (porzione della) minoranza albanese inclusa, hanno iniziato a mobilitarsi e protestare contro la corruzione del governo da vari mesi. Le proteste, pur essendo iniziate in maniera circoscritta già lo scorso anno, hanno subito una crescita esponenziale in seguito alla divulgazione di registrazioni telefoniche che comprometterebbero il partito di governo e importanti esponenti politici (tra cui l’accusa di intercettazioni telefoniche illegali – definite “bombe” dall’opposizione - di ventimila cittadini macedoni). Le accuse vanno dai brogli alla corruzione e al nepotismo, sebbene la goccia che ha fatto traboccare il vaso è la presunta responsabilità del partito al potere nella morte di un ragazzo nel 2011. Il rilascio di queste informazioni, non si sa peraltro come siano state ottenute, ha galvanizzato la società civile e l’opposizione creando dei movimenti di protesta contro il governo. Dallo scorso maggio vari attivisti sono accampati davanti al palazzo del governo, mentre analoghi accampamenti di sostenitori di Gruevski sono sorti nelle vicinanze, in seguito a gremite manifestazioni nelle piazze della capitale. Alle tensioni tra maggioranza e opposizione si intersecano quelle latenti tra il governo conservatore e nazional-patriottico di Gruevski e frange estremiste della minoranza albanese (come è accaduto tra il 9 e 10 maggio a Kumanovo).
Una soluzione politica.
L’Europa ha una notevole responsabilità politica nel poter facilitare una soluzione dell’attuale crisi in Macedonia. Il Commissario europeo all’allargamento, Johannes Hahn, dopo una serie di incontri, è riuscito a strappare, lo scorso due giugno, elezioni anticipate previste per l’aprile del 2016. Nel frattempo, Zaev, il leader dell’opposizione, pare voglia dare voce all’ala più oltranzista, ossia a coloro che vorrebbero quanto prima rimuovere dal governo Gruevski (ritenuto un partner negoziale inaffidabile), che dal canto suo si sente forte della sua maggioranza e del consenso popolare. Così, mentre le due principali famiglie politiche europee, i socialdemocratici ed i conservatori, sono divisi al loro interno, dimostrando per l’ennesima volta una debolezza cronica dell’Europa nell’essere in grado di poter parlare con una sola voce, entra direttamente in gioco, all’interno della mediazione politica, un alto rappresentante degli Stati Uniti. Infatti, il mese prossimo, Victoria Nuland, Assistente del Segretario di Stato americano John Kerry per l’Europa e l’Eurasia, parteciperà, secondo una testata giornalistica macedone, al processo di mediazione politica. Se confermato, e se l’intervento di Washington dovesse rivelarsi decisivo (come accadde per gli accordi di pace di Dayton nel 1995), sarebbe una cocente sconfitta per l’UE e la propria credibilità, in una fase di crisi multiple, interne ed esterne, dal rischio Grexit, al conflitto in Ucraina, al flusso dei migranti sino al conflitti in Medio Oriente.
* Insegna Storia contemporanea e dell'Europa Orientale presso l'Università del Piemonte Orientale
di Paolo Pombeni
di Christian Costamagna *
di Fernando Algaba Calderón *