C’è una svolta della Leopolda?
Al netto della incontestabile abilità retorica di Matteo Renzi nell’inventare immagini efficaci, si può vedere come una svolta nella politica italiana quanto è successo a seguito della manifestazione della CGIL e della convention della Leopolda? Che questo sia accaduto almeno a livello tendenziale sembrerebbe fuori dubbio.
Quel che si è confrontato in questa occasione non è certo uno scontro fra una visione “di sinistra” ed una visione “di destra” sul futuro del maggior partito della politica italiana. Quelle sono categorie buone per lo show televisivo, non per l’analisi della nostra fase politica.
In realtà si è avviato uno scontro sul modello di governo che deve avere la nostra democrazia, ossia se si debba continuare nel sistema del “governo di direttorio” che è quello immaginato di fatto dal nostro sistema costituzionale, o se si possa passare ad un governo di partito fondato sulla concorrenza elettorale.
Vediamo di spiegarci. Il nostro sistema è stato sempre fondato su governi di coalizione. La scelta in questo senso venne fatta da De Gasperi nel 1948 quando pur disponendo la DC di un cospicuo successo elettorale egli volle un governo di coalizione associandosi alcuni partiti minori, alcuni collocati sulla sua destra, altri sulla sua sinistra. A Dossetti che avrebbe voluto una DC che trasformasse il successo elettorale nella presa in carico totale del governo del paese, lo statista trentino oppose il ragionamento che la DC aveva sì una imponente adesione nelle urne, ma non rappresentava appieno le classi dirigenti del paese, per cui doveva accettare di coinvolgerle nel governo attraverso i cosiddetti “partiti minori”. Molti osservatori dell’epoca, non scevri di pregiudizi anticattolici, plaudirono alla scelta “anti-integralista” del vincitore del 18 aprile 1948.
In realtà De Gasperi avviava il modello che ha dominato non solo la prima, ma anche la cosiddetta seconda repubblica: in Italia non c’è un partito dominante che reclama da solo il diritto di rappresentare la nazione sulla base del consenso elettorale maggioritario, ma ci sono “coalizioni” in cui confluiscono le organizzazioni che rappresentano le varie articolazioni delle classi dirigenti a livello sociale e culturale.
Con l’eccezione dei “monocolori” o dei “governi tecnici” per i momenti di impasse politico è sempre stato così. Nella seconda repubblica questo è stato l’Ulivo e questo sono stati anche i governi guidati da Berlusconi, nessuno dei quali si è mai retto solo sul suo partito.
Renzi presume di essere in grado di forzare il sistema e di costringerlo a quella che un tempo veniva considerata la “normalità occidentale” che al nostro paese era negata, cioè il governo sostanzialmente affidato ad una sola forza politica dominante. Ovviamente si tratta di un governo soggetto al giudizio degli elettori e destinato quindi ad essere dopo un certo periodo messo in radicale discussione e sostituito, mentre i sistemi di coalizione garantivano una tenuta molto più lunga alle componenti dominanti, che magari cambiavano alleati, ma restavano al loro posto.
Questo modello sconvolge gli equilibri di potere e dunque non sorprende la rabbiosa reazione di quanti si sentono messi fuori gioco. Il sistema di coalizione infatti non riguardava soltanto i partiti parlamentari, ma anche i vari sistemi di rappresentanza a partire dai sindacati, le organizzazioni del sistema culturale (dai media alle chiese), ciascuno dei quali trovava in un “pluralismo” di quel genere gli spazi per la difesa dei propri interessi.
Gli avversari di Renzi hanno delle chance di successo? Al momento sembrano scarse. Infatti il ricatto elettorale non è nelle loro mani. Sostenere che la piazza della CGIL è fatta di elettori del PD che dunque il partito non può perderli è dubbio: più probabilmente una larga quota sono elettori dell’estrema sinistra o fanno parte di quelli che si astengono per rabbia dall’esercizio del voto. Andare alle elezioni con una nuova forza di sinistra alimentata da una scissione pidiessina non darebbe poi vita ad una possibilità di coalizione di governo: anche ammesso che M5S fosse disponibile all’alleanza con essa (il che è improbabile, viste le strategie di Grillo) non avrebbe i numeri per governare. Potrebbe al massimo costringere il PD di Renzi ad un governo di larghe intese: chiamare una soluzione del genere una vittoria della sinistra, richiama solo le teorie del tanto peggio tanto meglio, della chiarezza delle scelte di classe e via elencando, roba che nella storia ha prodotto solo guai.
Del resto l’alternativa di battere Renzi nel PD e riorientare il partito è al momento inesistente per ragioni numeriche. Ammettiamo per ipotesi che ci riuscissero, la conseguenza sarebbe la caduta della attuale maggioranza, e di conseguenza, non esistendo maggioranze alternative, comunque il ricorso alle urne in condizioni difficilissime di tensione sociale ed economica.
Dunque Renzi ha già vinto e vinto facile? Anche questa sarebbe una conclusione affrettata. Oltre che per opera dei propri avversari si può perdere anche per non capire le proprie debolezze (e i limiti della propria fortuna). Il passaggio da un sistema politico fondato su una organizzazione “per coalizioni” ad uno imperniato su un partito egemone capace di far convergere su di sé la rappresentanza generale del paese è una rivoluzione che va analizzata, organizzata per fasi, e strutturata in nuove articolazioni sociali e culturali.
Al momento questo sembra il passaggio che manca. Far funzionare l’I-phone con un gettone è una follia, ma anche non conoscerne a fondo potenzialità e difetti limita i vantaggi che se ne possono ricavare.
di Paolo Pombeni
di Giulia Guazzaloca
di Massimiliano Trentin *