Ultimo Aggiornamento:
24 aprile 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

Le sfide politiche poste da Kobane

Massimiliano Trentin * - 28.10.2014
YPG

Nonostante le attese della maggior parte degli osservatori internazionali, la città di Kobane (Ras al ‘Ayn in arabo) non è caduta nelle mani delle milizie dello Stato Islamico. La resistenza ad oltranza delle Unità di Protezione Popolare (YPG) sostenute dai bombardamenti aerei statunitensi ha dimostrato come l’avanzata delle truppe dell’autoproclamato Califfo al Baghdadi sia ben lungi dall’essere inarrestabile. Come visto anche recentemente in Iraq, dove le Iraqi Security Forces, le milizie sciite o i peshmerga curdi sono dapprima arretrate e poi hanno contenuto i miliziani islamisti, lo Stato Islamico non è in grado di vincere lo scontro militare ogni qualvolta si trova a combattere con un avversario ben addestrato, dunque disciplinato, equipaggiato a dovere, sostenuto dall’aviazione ma soprattutto motivato nella difesa del territorio e nell’opposizione ai progetti del cosiddetto Califfato.

Questi elementi portano dunque ad alcune riflessioni sul merito “militare” e “politico” degli eventi in corso, e delle loro implicazioni anche per le politiche di casa nostra. Anzitutto, l’esito degli interventi militari e politici esterni dipendono sempre e comunque in ultima analisi dalla forza dei partner locali, ossia di chi vive in quei territori. Gli interventi esterni possono certo influenzarne le direzioni e i caratteri ma difficilmente ne determinano le sorti. In questo caso, è stata la resistenza delle forze curde dell’YPG a spingere Washington a rivedere parzialmente i propri piani e ad intervenire a difesa di un teatro che fino a qualche settimana fa considerava “secondario”: come del resto considerava secondario anche Sinjar, dove le comunità crude yazide, cristiane e musulmane hanno rischiato il genocidio e si sono in parte salvate proprio per l’intervento militare delle YPG e del PKK. Queste due forze ora si sono dimostrate tra le più determinate ed efficaci nello scontro “mortale” contro lo Stato Islamico. Tale forza deriva, a mio avviso, da due elementi fondanti: l’organizzazione interna, il radicamento nel territorio e la capacità costruire un’esperienza di governo dei territori da loro amministrati in Siria che sembra essere una delle poche reali alternative all’autoritarismo dei regimi medio-orientali e al fondamentalismo islamista.

Questo ultimo punto risulta particolarmente importante e foriero di ulteriori sviluppi. Dal 2012, infatti, nella Siria settentrionale forze curde e arabe hanno costruito i cosiddetti tre cantoni della Rojava: ossia una zona autonoma sia rispetto al governo centrale di Damasco sia alle diverse coalizioni dell’opposizione siriana sostenute dai Paesi arabi del Gofo, Turchia e Paesi occidentali. La redazione della “Carta del contratto sociale” della Rojava nel novembre del 2013 colpisce per i principi democratici di cui si fa promotrice: anzitutto il principio dei confini nazionali della Siria, per cui la Rojava è autonoma ma comunque parte della Siria; condivisione del governo tra gli individui appartenenti alle diverse comunità linguistiche e confessionali attraverso le istituzioni municipali e cantonali; rifiuto delle discriminazioni religiose, etnico-linguistiche, di genere e sesso; riconoscimento del curdo a fianco dell’arabo come lingua ufficiale; partecipazione delle donne alle funzioni di governo e di difesa del territorio; accesso universale e gratuito all’educazione e alla sanità; promozione del lavoro come fattore fondante ogni strategia di sviluppo; rispetto e preservazione del patrimonio ambientale. Già in condizioni di pace, questa Carta del contratto sociale costituirebbe un’esperienza avanzata di democrazia in una regione in cui invece prevalgono forze, interne ed esterne, anti-democratiche. Che questa esperienza, poi, si attui in un contesto di guerra civile, di guerra regionale per procura, e oggi di guerra “totale” portata avanti dallo Stato islamico, sorprende ancora di più. La diversità diventa qui ricchezza, contrapponendosi ad ogni esclusivismo etnico-linguistico, religioso o confessionale. Se confrontata con altre “carte” costituzionali o programmi politici elaborati da forze siriane dell’opposizione o dal regime di Damasco, si notano immediatamente i caratteri avanzati dell’esperienza di Rojava.

Ovviamente, non è tutto oro quel che luccica, per cui le dichiarazioni e le istituzioni di questa democrazia radicale devono essere confrontate con le pratiche effettive di governo: queste raccontano di difficoltà notevoli nel far accettare agli uomini le direttive e gli ordini impartiti da donne, siano queste in divisa o meno; vi sono stati episodi di repressioni delle dissidenze così come di accordi con forze non esattamente democratiche come il regime a Damasco. Ciononostante, Rojava rappresenta ad oggi una di quelle esperienze, di quelle soluzioni parziali che, se coltivate e difese in maniera adeguata, possono costituire un patrimonio sociale e politico su cui costruire poi una soluzione generale per la Siria o i territori contigui.

La battaglia di Kobane non costituisce dunque un semplice scontro tra forze militari che non si fanno promotrici di alcun progetto politico di governo della società o, al massimo, si caratterizzano per essere simili nelle dichiarazioni e nelle pratiche autoritarie. A Kobane si scontrano due forze che si fanno promotrici di due progetti di società contrapposti e irriducibilmente alternativi, dal punto di vista sociale, istituzionale e anche simbolico. Si capisce dunque perché lo Stato islamico abbia investito molte delle sue forze nella conquista e nell’eliminazione fisica di quel che risulta essere un nemico “mortale”: ossia, l’alternativa democratica.

E forse si può anche capire le ragioni dell’opposizione dei dirigenti turchi e del timido sostegno occidentale. Sebbene, infatti, non siano le uniche in campo, sono i curdi del PYD e del PKK che costituiscono l’asse portante dell’esperienza della Rojava. Il PKK è un’organizzazione militante curda, marxista-leninista, che dal 1984 ha impegnato le autorità turche in una guerra civile senza fine in nome dell’indipendenza del Kurdistan turco. Ad oggi è ancora nella lista delle organizzazioni terroristiche di USA e Unione Europea. In seguito, però, alla cattura e imprigionamento del leader Abdullah Ocalan nel 1998, il PKK ha intrapreso un percorso di riforma che superi il paradigma etnico-nazionalista per incorporare le rivendicazioni di autodeterminazione individuale e collettiva all’interno di un più ampio processo di riforma democratica per l’intera Turchia: ineluttabile, ritorna il tema della democrazia come auto-determinazione. Da qui, anche l’impegno nei dialoghi di pace con il governo Erdogan ad Ankara. Con le dovute particolarità di un contesto di guerra, l’autogoverno dei cantoni della Rojava sembra tradurre in istituzioni e pratiche di governo questi principi di riforma, combinandoli con l’attenzione che da sempre le comunità della Jazira siriana hanno per il patrimonio ambientale o che altre comunità locali attribuiscono alla donna nella vita pubblica. La svolta conservatrice di Erdogan in politica interna, accelerata dalle scelte radicali nei confronti della guerra in Siria, va in direzione contraria alla Rojava, tanto da far ammettere che tutto va bene, perfino lo Stato islamico, piuttosto che i curdi siriani e il PKK. Non parliamo delle Monarchie arabe del Golfo i cui paradigmi ideologici e politici sono antitetici al “contratto sociale” dei tre cantoni della Rojava. Ma anche per i Paesi europei e gli Stati Uniti non è facile appoggiare la Rojava in quanto guidata da forze che si dichiarano socialiste, se non addirittura comuniste, e che interpretano la lotta contro lo Stato islamico come lotta al nazi-fascismo: lotta il cui successo necessita ieri come oggi la collaborazione tattica, se non strategica, tra forze anche molto diverse tra di loro, quali il PKK e gli Stati Uniti d’America. Si pone per tutti la necessità di riconoscere le trasformazioni politiche in corso e di ripensare molte delle categorie fin qui utilizzare per interpretare il Medio Oriente ed agire di conseguenza.

Non si intende qui trovare nella Rojava un esempio “eroico” su cui far convergere le più disparate forze umanitarie, nazionaliste, internazionaliste o progressiste radicali, orfane di interlocutori medio-orientali che soddisfino le proprie esigenze ideologiche e di dibattito interno. Ciò che si desidera è mettere in luce come l’esperienza della Rojava costituisca oggi un elemento politico, oltre che strategico, che si contrappone in modo determinato ed efficace al fondamentalismo etnico-confessionale in Medio Oriente. Un’esperienza, e un esperimento di democrazia che dovrebbe far riflettere le diplomazie internazionali su quali siano i partner locali più adeguati ed affidabili nella lotta contro lo Stato islamico, ed ascoltare di conseguenza le loro richieste, assai pragmatiche: apertura effettiva di corridoi umanitari che permettano l’approvvigionamento e la difesa di questi territori, affinché chi vi abita e chi via ha trovato rifugio dopo le persecuzioni dei fondamentalisti possano continuare a sentirsi al sicuro, e praticare questo esperimento di democrazia. Sempre che si desideri veramente un futuro democratico, autonomo per il Medio Oriente e Nord Africa, e non ci si limiti a leggere la regione secondo il binomio stabilità autoritaria vs. democrazia fondamentalista anche laddove esistono alternative, come la piccola Rojava in Siria e la vicina Tunisia sembrano raccontarci, oggi.

 

 

 

 

* Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Bologna