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Aspettando la riforma della legge elettorale

Paolo Pombeni - 02.08.2017
Legge elettorale

Qualunque dibattito sul futuro del paese sembra essere legato all’incognita su quale sarà la nuova legge elettorale che il parlamento sarebbe tenuto a varare, come non cessa di chiedere il presidente Mattarella. Tutte le persone responsabili capiscono infatti che è difficile fare politica senza avere la possibilità di immaginarsi i futuri equilibri possibili: la politica, quella seria, richiede orizzonti temporali non brevi e poi c’è da capire non solo che legge di bilancio si farà, ma se il futuro governo post elettorale la rispetterà o meno. Aggiungiamoci, anche se non se ne parla molto, che in sede internazionale il non poter ragionare su come sarà l’Italia del 2018 è uno di motivi per cui non riusciamo a giocare la nostra partita.

I grandi giornali fanno qualche pressione perché si prenda almeno in considerazione come sbloccare la faccenda, ma al momento non è che trovino grande ascolto.

Per capire bisogna cercare di districarsi nel gioco di specchi che vari esponenti della classe politica stanno cercando di costruire. Il primo riguarda senza dubbio la richiesta di una riforma che preveda un premio alle coalizioni. Se si guarda con attenzione questa prospettiva si capisce facilmente che essa non favorirebbe la formazione di alcuna maggioranza. Non solo a stare ai sondaggi nessuna delle coalizioni ipotizzabili potrebbe raggiungere il premio di maggioranza previsto dal fatidico 40% che contempla l’attuale moncone di legge elettorale per la Camera sopravvissuto all’esame dell’Italicum da parte della Consulta. Certo si possono immaginare tsunami della pubblica opinione, ma al momento sono pure fantasie senza fondamento.

All’opposto presentandosi in coalizione le due maggiori componenti, il centrodestra e il centrosinistra, otterrebbero quasi sicuramente meno voti che se ciascun partito corresse con le sue insegne. Infatti la coalizione obbliga a parlar bene dei propri alleati e questo deluderebbe gli elettori duri e puri di ciascun partito, cioè una componente non certo minoritaria in tempi di astensionismo diffuso che ha concentrato nei partiti le componenti più tradizionalmente identitarie.

Le coalizioni converrà farle nel nuovo parlamento, una volta che ciascuno avrà raccolto il massimo dei voti possibili. A quel punto, giocando anche sul fatto che altrimenti si lascerebbe il paese senza governo, sarà più facile far digerire agli elettori di ciascun partito qualche cedimento rispetto alle retoriche elettorali. Questo però è quanto si farà dopo e che non è bene dire ora.

Ultimamente torna in campo l’ipotesi di riprendere un tentativo di accordo sul simil-tedesco improvvidamente caduto in un agguato parlamentare. Berlusconi sembra premere con convinzione su questo tasto, ma anche lì ci sono difficoltà da non sottovalutare. Infatti non si può annullare la stupida votazione che ha tolto la situazione particolare con cui si vota in Trentino-Alto Adige. Se si vuole andare avanti, bisogna mandare al Senato la bozza con quella correzione, che non è accettabile dalla SVP (e da una buona parte dei parlamentari trentini), il che significa o farla naufragare al Senato per riformarla, o farla passare con quella norma che fra il resto potrebbe aprire un contenzioso internazionale con l’Austria (cosa che in questo momento per molti motivi sarebbe bene evitare). Inoltre il simil-tedesco è, come tutti i prodotti contraffatti, una cattiva copia dell’originale e soprattutto non sarebbe in grado di consentire una fase di convivenza pacifica nei partiti.

Entra qui in gioco un fattore che ci pare sottostimato: la crisi di nervi in cui vive gran parte della classe parlamentare attuale chiamata ad affrontare una difficile prova elettorale. Innanzitutto si sa che una quota non piccola di essa non potrà essere riconfermata: vuoi per il venir meno degli effetti del passato premio di maggioranza (secondo alcuni calcoli il PD perderebbe un centinaio di deputati), vuoi per lo spazio che i partiti vogliono fare a volti nuovi, convinti che la gente si sia stufata della nomenclatura tradizionale, vuoi per le condizioni difficili della competizione, soprattutto nei collegi senatoriali. Si aggiunga che il “riciclo” dei parlamentari dismessi è sempre più difficile: si restringono i posti nell’economia pubblica, le elezioni locali non solo sono lontane, ma sono confronti ancor più difficili da vincere di quelli nazionali.

Tutto questo disegna uno scenario non certo incoraggiante. Si potrebbe dire che l’attuale governo non solo rischia di non avere una maggioranza certa che lo sostenga, ma pure di non avere un parlamento degno di questo nome dove poter svolgere in maniera decente i confronti che inevitabilmente la politica impone. A cominciare ovviamente da quello sulla legge di stabilità, che già di suo è il contesto privilegiato per gli assaltatori professionisti della diligenza pubblica, ma che in una situazione preelettorale come quella che abbiamo cercato di analizzare diventerà inevitabilmente il terreno privilegiato per gli scontri a base di slogan e di rivendicazioni delle ragioni di ciascuno a cui non si vorrà in alcun modo derogare.