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Appesi al referendum?

Paolo Pombeni - 18.05.2016
Referendum costituzione

La prova delle amministrative sembra passata al momento in secondo piano, il tema centrale che domina è l’esito del referendum sulle riforme costituzionali. I sondaggi che danno per problematica la vittoria sicura dell’una o dell’altra parte hanno scaldato una situazione che qualcuno riteneva dagli esiti scontati grazie ad un massiccio disinteresse della pubblica opinione verso un tema che si supponeva di difficile popolarità. Nel momento in cui si è invece visto, sempre da una parte e dall’altra, che la battaglia poteva anche portare a svolte importanti, si è innescato un clima piuttosto teso.

Naturalmente il contenuto specifico della riforma non è il tema dominante: troppo facile presentare, soprattutto da parte dei fautori del “no”, un quadro fantasioso delle questioni in campo, riducendole a stereotipi che preoccupano (sconvolgimento dei valori costituzionali, fine del sistema rappresentativo e scempiaggini simili). Nel marasma di queste diatribe sul nulla si sono buttati non solo forze politiche di opposizione a cui interessa solo buttar giù il governo Renzi, perché questo rientra tutto sommato nelle regole del gioco. Ci si potrebbe aspettare un po’ più di senso di responsabilità nazionale anche da parte delle opposizioni, ma nella storia è un fenomeno raro.

Più difficile da comprendere sono alcune prese di posizione di vertici di associazioni come l’ANPI che non si capisce in nome di cosa parlino: non certo della mitica “resistenza” che per ovvi motivi anagrafici nessuno di loro ha fatto, neppure per i fini storici di quel movimento pluralista che voleva l’instaurazione di una democrazia costituzionale dove vige la libertà di opinione, né infine perché formata da persone che abbiano riconosciuta competenza sui temi in questione. E’ solo uno degli esempi di come la bagarre che si sta cercando di montare prenda come occasione il referendum con la sua potenzialità di muovere passioni irrazionali per saldare dei conti politici fra fazioni del mondo politico.

La domanda da porsi è dunque se ci siano spazi per evitare questa deriva che farà male al paese comunque vadano le cose. I referendum hanno un senso se sono usati come verifica di alternative entrambe plausibili e che non comportino una lotta fra il bene e il male. Altrimenti la diatriba non si chiuderà coi risultati che usciranno dalle urne, perché il bene resta bene e il male male sia che vincano o che perdano, e dunque quelli che si ritengono gli alfieri del “bene” continueranno la lotta contro il “male” anche dopo aver conosciuto l’esito del referendum.

Quel che sarebbe necessario è il disarmo bilaterale dei pasdaran dei due schieramenti, perché l’ultima cosa di cui questo paese ha bisogno è di portare altra benzina al fuoco delle delegittimazioni reciproche che stanno diventando la regola nella sguaiata politica di questi ultimi mesi. Non serve a nulla buttarla in caciara come si continua a fare, con battibecchi inutili sul primato dell’onestà, sulla corruzione imperante e sullo sfascio universale. Il paese ha problemi enormi con cui fare i conti e continuare a distrarsi (mettiamola così) con questi spettacolini da talk show non ci farà fare dei passi avanti.

Certo bisogna chiedere al premier di dar prova di una certa sobrietà nell’affrontare il difficile tornante referendario, che indubbiamente deve combattere contro una coalizione vasta e spregiudicata. Non gli conviene però spingere la drammatizzazione fino al punto di annunciare un suo ritiro dalla vita politica se prevalesse il “no”. Ha ragione a ritenere che il suo governo, che ha promosso quella riforma, dovrebbe trarre delle conseguenze e dimettersi chiedendo agli elettori se il loro “no” fosse diretto solo al testo costituzionale rivisto o intendesse coinvolgere un giudizio sul suo complessivo modo di operare. Questo è il modo corretto di verificare la portata del referendum, mentre un ritiro previo del premier dalla vita politica significherebbe attribuire a quel voto un giudizio certo sugli equilibri politici, giudizio che non può essere interpretato come scontato.

Va riconosciuto che una parte non piccola di coloro che si pronunciano per il “no” ha di mira una bocciatura dell’esperienza di Renzi ben oltre la questione posta sul tappeto dalla riforma costituzionale (che di per sé non fa che completare, per quanto in maniera inevitabilmente discutibile, un percorso che ha almeno quarant’anni di storia alle spalle). Non si vede però perché Renzi debba dare loro la soddisfazione di poter conglobare anche quei cittadini che invece intendono semplicemente dissentire dalla riforma così come è stata concepita nelle nuove norme: una posizione che, per quanto chi scrive non la condivida, è assolutamente legittima e rispettabile.

Appendere una esperienza politica complessa come è stata quella incarnata da Renzi, cioè un complicata e anche contorto cambio di verso, un tentativo di riorganizzazione della classe politica italiana, all’esito di un referendum su una riforma che tocca le modalità di organizzazione del potere pubblico e non i valori fondanti e programmatici della nostra Costituzione (che infatti non vengono minimamente toccati), non solo non è sensato, ma sarebbe disastroso per il futuro del paese.

Abbiamo bisogno di ricostruire una comunità politica ordinata, non certo di precipitare in una specie di parodia della Libia con fazioni strutturate che si contendono il terreno e le risorse in una guerriglia senza fine.