Donald Trump e le incognite del Grand Old Party
Quali lezioni deve trarre il Partito repubblicano dall’ampio consenso che Donald Trump ha raccolto nelle primarie presidenziali che si stanno per concludere nonostante l’ostilità che i vertici istituzionali hanno ostentato verso di lui? Quali potranno essere gli effetti a lungo termine di un successo che – al di là degli esiti del voto dell’8 novembre – rompe tradizioni e modelli interpretativa consolidati? Queste domande si sono fatte strada con forza crescente con il passare del tempo, mano a mano che i candidati più accreditati per la nomination di luglio abbandonavano la competizione e quello che dapprima era stato considerato più che altro un fenomeno di costume s’imponeva come il più serio sfidante dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton per il posto di quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Come il suo contraltare in campo democratico, Bernie Sanders, Trump è riuscito a dare voce ai molti che non si riconoscono in un partito che da anni fatica ad esprimere figure di standing adeguato; un problema emerso nel 2008 con la candidatura (per altri aspetti rispettabile) di John McCain e amplificato nel 2012 con quella incolore di Mitt Romney. In questo senso, la frammentazione dell’offerta politica repubblicana in una pluralità di rivali spesso difficilmente distinguibili l’uno dagli altri ha finito per fare il gioco di Trump, accentuandone la visibilità ed elidendo quella di quanti – pur dotati di una più solida piattaforma elettorale – si sono ritrovati intrappolati nella categoria (poco pagante in termini di voto) di ‘candidati dell’establishment’.
Come outsider, Trump metterebbe quindi in luce la debolezza di un partito fossilizzato? In parte sì. D’altro canto, questa interpretazione rischia di essere riduttiva. Trump, fra le altre cose, sembra essere riuscito a mettere in crisi equilibri geografici e di appartenenza che, negli ultimi anni, erano stati importanti per gli esiti delle primarie repubblicane. La sconfitta del ‘cubano’ Rubio nella ‘sua’ Florida e l’incapacità dell’‘evangelico’ Cruz di sfruttare questa identità fuori da un numero ridotto di Stati sono segnali dell’impatto che ha avuto il ‘ciclone Trump’ sulle fedeltà di questo tipo. Allo stesso modo, Trump è stato più capace dei suoi avversari di canalizzare le pulsioni ‘antipolitiche’ portate alla luce a suo tempo dal movimento del Tea Party e che, oggi, sono diventate patrimonio corrente di molti candidati repubblicani. Rispetto a tale aspetto, anche il suo modo di porsi (che è forse l’aspetto più ‘urticante’ per un osservatore europeo e che anche rispetto alla scena statunitense mette brutalmente in discussione un certo fair play generalmente rispettato) si trasforma in un assett e contribuisce ad accreditare la ‘genuinità’ di un candidato che dell’essere ‘antisistemico’ ha sempre fatto un punto di forza. Non a caso, bersagli degli attacchi del tycoon newyorkese sono stati a lungo – prima ancora che il possibile rivale democratico e il suo progetto politico – i vertici del Grand Old Party e i suoi rivali alla nomination, più volte presentati come i responsabili della decadenza di un’America che egli si propone di restaurare nella sua originaria grandezza.
Per quanto paradossale, un filo rosso sembra quindi legare la proposta politica di Trump a quella di Bernie Sanders. Anche se con strumenti diversi, entrambi hanno costruito il proprio successo sulla critica radicale delle dinamiche interne ai rispettivi partiti e su un appello alla riscoperta della loro presunta identità originaria. A questa critica ‘interna’ se ne salda poi una ‘esterna’, legata a quella che è presentata come la necessità di ridefinire le basi del ‘contratto sociale’ americano. E’ su questo punto che si forma la paradossale convergenza fra l’‘antipolitico’ Trump e l’‘iperpolitico’ Sanders ed è questo il punto con cui sia il Partito repubblicano sia quello democratico dovranno confrontarsi negli anni a venire. Per il GOP, i successi di Donald Trump costituiscono l’ennesima dimostrazione di come il principale bacino di consensi continui a essere costituito da quello dei maschi bianchi di mezza età e di come i successi ottenuti in passato fuori da tale bacino siano –nella migliore delle ipotesi – volatili. Di contro, per il Partito democratico, i successi di Sanders, anche se non cambieranno il risultato finale della corsa per la nomination, sono un segnale di come la politica ‘centrista’ portata avanti dalla fine dagli anni Novanta sia vista non senza fastidio da una parte importante dell’elettorato, in particolare quello più giovane, maschile e urbano. In un caso e nell’altro la sfida è quella di conquistare fasce di consenso fuori dalle vecchie constituency di riferimento. Una sfida che, d’altro canto, rende più ardua la lotta per i voti di un ceto medio che mai come quest’anno ha espresso la sua disaffezione per la politica ‘tradizionale’.
* Gianluca Pastori è Professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.
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