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Adesso viene il difficile

Paolo Pombeni - 03.02.2015
Sergio Mattarella

Come i contorcimenti della classe politica nel 2006 hanno portato all’elezione imprevista di Giorgio Napolitano, così altri contorcimenti della politica hanno portato all’elezione, meno imprevista, di Sergio Mattarella. Napolitano esordì con un discorso d’investitura il 15 maggio 2006 in cui si augurava che un mandato che era iniziato con una nuova legislatura «aperta nel segno di un forte travaglio», sapesse svilupparsi in condizioni in cui «più chiara appare l'esigenza di una seria riflessione sul modo di intendere e coltivare in un sistema politico bipolare i rapporti fra maggioranza e opposizione». Possiamo chiederci se più o meno siamo ancora lì.

In realtà le cose sono diventate più complesse. Questa volta c’è un vincitore acclamato dell’operazione, ed è Matteo Renzi. Molti speravano che uscisse dalla prova quanto meno acciaccato e che la sua leadership venisse ridimensionata. In fondo così era stata letta da alcuni anche la candidatura di Mattarella: non un uomo suo, né un personaggio malleabile; una offa gettata alla minoranza del PD; un compromesso moderato che avrebbe potuto andare bene anche al centro-destra. Invece la stupidità e la pochezza politica dei suoi avversari hanno cambiato segno a quella scelta.

Berlusconi alla ricerca di un protagonismo che non può più avere si è messo di traverso senza avere il potere di farlo e così ha gratificato Renzi della libertà dall’accusa di essere prigioniero e vittima del patto del Nazareno. Alfano alla ricerca di un ruolo per il suo partito ha prima fatto asse con Berlusconi e poi (presumiamo grazie al realismo di Casini) ha fatto marcia indietro, comprendendo che opporsi a Mattarella era una mossa senza senso. Minoranza PD con aggiunta di Sel e compagni si sono buttati con entusiasmo su Mattarella, pensando che se a Berlusconi non andava bene ciò avrebbe segnato la loro vittoria e la riscossa di un “blocco di sinistra” di cui per la verità l’eletto non pare possa essere il promotore più plausibile.

Renzi ha avuto l’intelligenza politica (qualcuno si limita a dire la scaltrezza) di capire che questo era il groviglio e che era a suo vantaggio: gli dava l’occasione di confermare la sua posizione di unico rappresentante di una nuova generazione politica in grado di far marciare il paese, senza attardarsi in giochetti da antico regime.

Indubbiamente il premier ha raccolto un grande successo perché è stato il primo presidente del consiglio della storia repubblicana a riuscire a portare al Quirinale il candidato che proponeva. Questo gli è stato ampiamente riconosciuto, ma adesso arriva il difficile.

Vincere una battaglia non significa automaticamente vincere la guerra per quanto significativa essa possa essere. Da oggi tutti i nemici di Renzi, e non sono pochi, sanno che devono coalizzarsi per bloccarlo, oppure per loro non ci sarà futuro. Non credete a quelli che pensano che la cosa possa essere risolta con la generosità di associare alla propria vittoria un po’ di ex-avversari: sono cose che in politica accadono molto raramente.

Renzi annuncia che le riforme adesso mettono il turbo, ma per portarle a casa deve annientare gli spiriti di rivincita che covano in parlamento. La legge elettorale è forse abbastanza al riparo, perché alla Camera il PD ha una tale maggioranza da sopportare dissidenti interni ed esterni, ma se per caso non ce la fa e la sinistra interna ed esterna otterrà modifiche (magari con qualche compiacente appoggio di Lega e M5S) si torna al Senato dove la partita è difficilissima. Sulla riforma del bicameralismo la strada è tutta in salita. Poi, Jobs Act a parte, c’è la partita della riforma delle Banche Popolari, su cui NCD si gioca la sua capacità di lobbismo. Infine la vischiosissima questione della riforma fiscale con la presunta norma “salva Berlusconi”: un provvedimento che da un lato dovrebbe passare per snellire contenziosi (penali) fiscali molte volte senza senso, ma che dall’altro se passa innesca quantomeno il tentativo di Berlusconi di liberarsi dalla legge Severino e tornare in pista (non gli servirebbe a gran che, come avvenne per il ritorno in campo dei politici bruciati nel tramonto della prima repubblica, ma certo farebbe confusione).

Se per il leader del governo non sono fiori, per i suoi competitori più diretti non sono rose, ma solo spine e molto pungenti. Il centro-destra è terremotato. Forza Italia avrebbe bisogno di liberarsi dall’ingombro di Berlusconi, ma anche così rischia di perdere la sua base sociale. Quella più radicaleggiante subisce l’attrazione vuoi della Lega vuoi del M5S (per non dire dell’astensione), quella più legata agli ambienti delle classi dirigenti che non volevano subire l’egemonia PCI-PDS-DS vede Renzi come qualcosa oltre quella storia e vorrebbe se non salire sul suo carro, almeno marciargli al fianco condizionandolo.

Alfano con Casini avrebbe potuto raccogliere quell’esigenza e non a caso sta al governo, ma sembra che i suoi non capiscano che quello è il solo ruolo che può far conservare loro un significato sia pure di nicchia (come quello in cui vissero per decenni i “partiti minori” delle coalizioni di governo a guida DC).  Le altre formazioni “centriste” non hanno alcun futuro in un quadro come quello che disegna il cosiddetto Italicum.

Dunque la partita politica non si è affatto chiusa il 31 gennaio, anzi comincia adesso e non sarà una passeggiata per nessuno.