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Verso l'ennesima riforma elettorale

Luca Tentoni - 07.09.2019
Secondo governo Conte

Sebbene il clima sia insolitamente rassicurante, il secondo governo Conte si prepara ad affrontare la prova del doppio voto di fiducia: alla Camera non ci saranno problemi, mentre al Senato non si possono escludere sorprese (forse non per l'esito, verosimilmente favorevole all'Esecutivo, ma per il numero dei voti a sostegno). Se il principale appuntamento dei prossimi mesi è quello con la legge di bilancio, va però segnalato che la riforma elettorale (legata alla riduzione dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200, prevista da un disegno di legge costituzionale che sta per essere approvato definitivamente per poi - forse - essere sottoposto a referendum popolare) potrebbe rappresentare un passaggio non facile e neppure indolore. Se lo scopo del nuovo sistema elettorale sarà quello di evitare che un soggetto politico (partito o coalizione: nello specifico, Lega-FdI) possa aggiudicarsi la maggioranza assoluta dei seggi in entrambi i rami del Parlamento pur avendo poco più del 40% dei voti, la semplice abolizione dei collegi uninominali e l'assegnazione di tutti i seggi con un metodo (proporzionale) del quoziente potrebbero non bastare. Nel 2018, i partiti che superarono lo sbarramento del 3% alla Camera furono: Lega (17,35%), FdI (4,35%), Forza Italia (14%), Pd (18,76%), M5S (32,68%), LeU (3,39%). In totale, dunque, le forze sotto il 3% ebbero il 9,47%. Quindi, applicando la proporzionale "pura", ogni partito avrebbe ricevuto all'incirca il 10,5% in più di seggi rispetto alla percentuale di voti ottenuta (Lega e FdI, per esempio, con un complessivo 21,7% dei voti, avrebbero avuto il 24% dei deputati). In Senato, con la ripartizione regionale, l'effetto premiante per i partiti maggiori sarebbe (e sarebbe stato) più vistoso. Infatti, più piccola è la circoscrizione (cioè meno seggi vanno assegnati), più difficile è per le forze medio-piccole ottenere un seggio. Il basso numero di posti in palio, in Senato, può creare soglie implicite di sbarramento molto alte in almeno la metà delle regioni. Se si considera che a nord di Roma il possibile "fronte sovranista" (Lega-FdI) ha avuto alle europee del 2019 percentuali superiori al 45% al Nord e al 40% al Centro, si comprende che nessun sistema elettorale può sottorappresentare partiti così forti. Semmai, può assegnare loro una percentuale di seggi pari a quella dei voti, ma bisogna fare i conti con i suffragi dispersi, quelli conseguiti dai partiti più piccoli. I risultati delle europee, come accennavamo, sono ancora più indicativi di quelli del 2018: hanno superato il 3% Lega (34,26%), FdI (6,45%), Forza Italia (8,78%), Pd (22,74%), Più Europa (3,11%) e M5s (17,06%). In pratica (tranne la Svp) se si fosse votato con la proporzionale pura e la soglia del 3%, nel maggio scorso alla Camera dei deputati sarebbero rimasti senza seggi partiti che avevano raccolto il 7,6% dei voti. Lega e FDI, col loro 40,71% dei voti, non avrebbero avuto la maggioranza assoluta a Montecitorio, ma un buon 44% dei posti (in una Camera di 400 seggi, come disegnata dalla riforma costituzionale, avrebbero avuto bisogno di soli 25 seggi per governare); quota che - verosimilmente - in Senato si sarebbe avvicinata ancor di più al 50%. La semplice abolizione della ripartizione in collegi uninominali col "plurality system" potrebbe non bastare per raggiungere lo scopo. Si dovrebbe, quindi, affrontare il nodo delle coalizioni: mantenerle, permettendo ai partiti apparentati sotto il 3% di entrare comunque in Parlamento (assicurando al Pd di costituire un raggruppamento con gli alleati minori di centro e di sinistra, minimizzando dunque i voti dispersi) oppure, coerentemente con un meccanismo proporzionale che non assegna premi alle coalizioni, abolire i collegamenti (lasciando però Leu, Più Europa e altri in bilico a lottare per raggiungere il 3%)? Non si tratta di una questione da poco, anche considerando che una nuova legge elettorale non sarà certamente votata da Lega e FdI (da Forza Italia forse, ma non è detto) e che in Senato i voti di Leu e degli altri minori saranno decisivi. Quindi, si arriverebbe a dover sciogliere un nodo ancor più intricato: abbassare al 2 o addirittura all'1% la quota di accesso a Montecitorio e Palazzo Madama (in quest'ultimo caso, con le soglie implicite regionali, i partiti con l'1-2% non entrerebbero comunque) rendendo quasi impossibile un futuro governo Lega-FdI, ma cancellando anche tutte le altre possibili combinazioni (Pd-M5s, per esempio; resterebbe forse in piedi solo quella di associare Forza Italia ai sovranisti). Per non far vincere qualcuno, non vincerebbe nessuno. Chi scrive, com'è noto, preferirebbe l'assegnazione di tutti i seggi con un sistema uninominale a doppio turno eventuale (se nessun candidato del collegio avesse il 50% dei voti più uno nella prima votazione), ma in questa stagione politica stiamo andando in una direzione diversa, molto vicina al ripristino dei sistemi elettorali pre-1993. Tecnicamente molto è fattibile, ma è politicamente complesso. I fautori della riforma argomentano che - diminuendo il numero dei parlamentari - bisogna aumentare la proporzionalità per evitare che molte voci (partiti) siano poco o per nulla rappresentate; i contrari, invece, parleranno di legge liberticida, che impedisce al popolo di scegliersi il governo (in realtà il popolo non sceglie il governo, ma è ormai inutile spiegare che siamo in un sistema parlamentare, perché è tempo sprecato). Al di là delle visioni di parte, è tuttavia bene ricordare che le riforme elettorali si maneggiano con cura, non si fanno per far vincere o perdere qualcuno (di solito l'effetto sperato non è raggiunto, come ci insegna la storia) ma soprattutto che le architetture istituzionali (Costituzione e leggi per l'elezione delle Camere) vanno progettate con una visione ampia, di lungo periodo, oltre che - possibilmente, per non dire necessariamente - col maggior consenso possibile, oltre gli steccati della dialettica fra governo e opposizioni.