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24 aprile 2024
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Le crisi ricorrenti diventano sistemiche

Francesco Provinciali * - 07.09.2019
Giovanni Maria Flick

Ciò che siamo soliti definire con l’espressione crisi politica e che ci ha accompagnato in modo continuativo dal dopoguerra ad oggi, potrebbe in realtà essere meglio connotata come “lisi”, cioè come processo di lenta disgregazione del sistema fino alla sua dissoluzione.

Talmente ricorrente è il fenomeno al punto da computare in meno di un anno e mezzo la durata media di un governo: non si tratta allora più di una febbriciattola ricorrente ma di una vera e propria patologia endemica e caratterizzante la fenomenologia politica del nostro Paese.

Il concetto di normalità, inteso come stabilità, capacità di visione e lungimiranza, coerenza agli ideali fondativi, continuità, senso di responsabilità e primazia del bene comune sugli interessi di parte non sembra appartenere al continuum storico della nostra tipizzazione socio-politica-economica: è come se ogni volta ci fosse l’ambizione di ricominciare da capo, con mirabolanti progetti e promesse di terapie risolutive che si rivelano inefficaci e si avviluppano in una sorta di disfacimento autoreferenziale innescato dagli stessi anticorpi che dovrebbero debellare la malattia.

Vista dall’esterno (Europa- comunità internazionale) o rimuginata al suo interno (partiti, sindacati, Istituzioni) la cancrena è come caratterizzata da una ineludibile ripetitività che diventa prassi.

Alla prova dei fatti non c’è coalizione o forza politica capace di garantire identità e continuità, di proporre un modello sociale sostenibile, di padroneggiare il presente avendo un’idea chiara e praticabile di futuro.

Anche le coalizioni apparentemente fondate sull’autosufficienza dei numeri in Parlamento si sono lentamente corrose per defezioni, cambi di casacca, frantumazioni interne ai gruppi che le sostenevano, fino a restare aggrappate al filo di una manciata di voti contanti sulle dita di una mano.

Se la crisi si fa ricorrente al punto di diventare cronologicamente succedanea ad ogni effimero tentativo di continuità, qualcosa non funziona nel sistema ma anche nella testa dei suoi protagonisti: le ambizioni vanno allora commisurate al principio di realtà. Sarà colpa del sistema elettorale, della preponderanza dei partiti nella vita pubblica, dell’assenza di un’etica fondata sui principi di competenza e responsabilità.

Si è a lungo demonizzata la Prima Repubblica ma quella attuale, la seconda o terza che sia, ne è solo una pallida fotocopia, si è discusso sulla democrazia bloccata al centro ma né il bipartitismo, né il tripartitismo hanno saputo uscire dalle secche delle affabulazioni inconcludenti, delle lunghe fasi preparatorie, delle concertazioni senza risultati. Non esistono allo stato attuale alleanze di governo ma contratti: la differenza tra l’una e l’altra formula è profonda poiché un’alleanza si basa su un patto di lealtà e un programma condiviso mentre il mero contratto rende i contraenti meno vincolati alla reciproca fedeltà e più propensi a realizzare il proprio tornaconto.

L’etica esce definitivamente dalle stanze della politica poiché tutto è negoziabile e poi smentibile, il legame che unisce forze politiche a matrice significativamente diversa e con orientamenti alla prova dei fatti inconciliabili si basa sul principio della mera, reciproca ma non speculare, sovrapponibile convenienza.

Le maggioranze non integrano analogie programmatiche perché sono principalmente basate sui numeri: di qui al passo successivo, quello dei veti e dei ricatti il passo è breve.

Così è stato per il governo gialloverde: una sorta di unione di fatto senza legami sentimentali, fondata sul do ut des e sullo scambio delle reciproche concessioni: da un lato il TAV, la gestione dell’immigrazione, il decreto sicurezza, quota 100, dall’altra il reddito di cittadinanza, il condono, lo svincolo dal concetto tradizionale di famiglia. Così è e sarà per il neonato governo giallorosso (non me ne vogliano i tifosi della Roma): durerà fino a quando un interesse di parte verrà smentito e combattuto sul fronte opposto.

Anche nei preliminari della costituita coalizione il tema dominante è stato – nonostante grillini e PD giurassero il contrario- tutto l’armamentario delle cariche e delle poltrone, i veti sui nomi, i pesi e contrappesi dei ministeri e del sottogoverno.

E come sottolineato dal Presidente Emerito della Consulta Giovanni Maria Flick nell’accordo ha influito non poco tutta la faccenda della piattaforma Rousseau e della consultazione on line: “Si è delegittimato uno dei momenti più significativi della vita democratica attraverso una procedura di tipo privatistico".

Di programmi, modelli sociali da realizzare, riforme, problemi impellenti come l’idea di Europa, il mercato del lavoro, la recessione in atto, la disoccupazione giovanile, la fuga dei cervelli, il drammatico show down ambientale, neanche l’ombra di un progetto, un impegno sottoscritto da sottoporre alle rispettive basi elettorali. Mancano le idee (o meglio si tengono malcelate nel timore di veti incrociati preventivi che mandino tutto a carte e quarantotto) e mancano parole condivise e comprensibili che le sappiano esprimere. Si assiste impietosamente ad un impoverimento di progettualità politica accompagnato da un altrettanto significativo depauperamento lessicale: si usano linguaggi sincopati, si affidano a smartphone e tablet i tweet e i selfie, le battute al vetriolo, un uso smodato del detto e poi smentito che genera insicurezza emotiva e non depone certo a favore della lucidità e lungimiranza dei contenuti che soccombono di fronte ai siparietti dei giochini a cristalli liquidi, come se – per usare una metafora di Vittorino Andreoli- il pensiero pensante diventasse pensiero pensato e immesso nel cortocircuito delle battute ad effetto, affidando alla canea urlante dei social un progetto di Paese che oggi viene tessuto e domani disfatto alla stregua della tela di Penelope.

La discussione è stata sostituita da algoritmi, piattaforme, post, linguaggi asfittici, miseri e sincopati, taluni non sono nemmeno in grado di pronunciare discorsi a senso compiuto e sintatticamente corretti.

Pochi giorni fa, esattamente il 18 agosto, si è svolto a Pieve Tesino il sedicesimo convegno promosso dalla Fondazione Degasperi, presieduta dal Prof. Tognon: il tema di quest’anno era “L’autobiografia di una nazione nelle lettere di Degasperi”: potremmo oggi assegnare lo stesso argomento ad un qualunque uomo politico del nostro tempo? C’è forse in giro qualcuno che sappia scrivere la biografia dell’Italia partendo dalla propria esperienza politica o, viceversa, che possegga doti personali, competenze politico-istituzionali, coerenza morale, capacità e attitudine alla guida del proprio popolo, visione di un modello di società e di Stato che vada oltre le effimere quisquilie del presente? Non se ne vede l’ombra.

Un tempo e proprio per impulso di uomini come De Gasperi, i partiti politici esprimevano la propria identità al presente e in divenire, si facevano portavoce di una progettualità mirata, usavano un linguaggio che favoriva l’interlocuzione, magari anche lo scontro duro e oppositivo ma sempre basato su argomentazioni scaturite da tesi congressuali, da un dibattito assembleare il quale metteva in risalto personalità di rilievo che sapevano proporre riferimenti e indirizzi fondati sulla conoscenza, lo studio, la fatica dell’impegno,  la cultura.

Erano docenti universitari, persone che scrivevano libri, formulavano ipotesi, sapevano comunicare emozioni e conquistare adesioni fondate sul merito, gente di statura internazionale che seppe poi transitare il Paese dalle secche del dopoguerra ad un modello di sviluppo dalla forte e connotativa caratterizzazione, assumendosi le proprie responsabilità. Una classe dirigente che aveva un’idea di Europa, poi scemata nel tempo in una sorta di rassemblement senza identità e – direbbe Musil- senza qualità, priva di afflato comunitario e tenuta insieme da veti incrociati, da ricatti e vincoli economico-finanziari, in perenne conflitto di rapporti interni, priva di una visione realmente unitaria e super partes, direi persino impresentabile e raffazzonata.

Dopo quel periodo di fervore e confronto ideologico siamo lentamente scivolati in una diaspora di lunga deriva e di basso profilo: bramosia del potere, interessi personali, ambizioni smodate e poi corruzione come prassi per pilotare consensi, vassallaggi padronali, mediocrità culturale e cinismo morale.

È come se la politica e gli uomini che la esprimono avessero abdicato all’omologazione e alla compressione verso il basso dei loro comportamenti pubblici e privati, incapace di pensare e scrivere per poi proporre ad alta voce un progetto nobile, un modello di Stato e di società civile.

Un tempo ci si scontrava duramente su basi ideologiche, oggi si fa peggio per motivazioni di interesse e convenienza, con repentini cambi di direzione e valutazioni di opportunismo.

Esiste un rapporto speculare tra rappresentanti e rappresentati, tra istituzioni e società: potremmo avere dei modelli esemplari dall’una o dall’altra parte se viene a mancare la consuetudine all’uso del pensiero critico, alla coerenza e nettezza di intenti, alla cultura intesa come studio, fatica, impegno, tradizione, elaborazione, innovazione fondata su solide basi e non – come accade – su luoghi comuni, siparietti, fiction, fake news, invettive, offese, minacce, ripicche, ricatti?

C’è una politica che esprime un senso di mediocrità disarmante e si fa rappresentare da personaggi ai quali non affideremmo la gestione del nostro condominio, essendo in gran parte privi di una cultura consolidata, di una capacità di interlocuzione alta e rispettosa, di pregresse esperienze professionali a garanzia di un costrutto di competenza e di responsabilità (che- non dimentichiamolo- sono e resteranno sempre i pilastri che qualificano un personaggio pubblico e sorreggono le istituzioni) che si pongono davanti alla res publica (in tutta la sua nobiltà etica) e al Paese (in tutte le sue drammatiche aspettative) come un giocatore d’azzardo che si piazza ‘bel bello’ di fronte ad una slot machine.

 

 

 

 

* Ex dirigente ispettivo MIUR