Un voto con qualche luce e molte ombre
L’esito al cardiopalmo delle elezioni presidenziali austriache ci consegna una mezza notizia e una notizia vera e propria. La prima è che Alexander Van der Bellen è il primo presidente verde eletto in Europa, con il 50,3% dei consensi; la seconda è che Norbert Hofer, il candidato della Fpö (Partito della Libertà) ha ottenuto il 49,7% dei voti, cioè il consenso di metà degli austriaci. Un Paese spaccato in due, dunque, polarizzato e mobilitato ben oltre le attese, con una percentuale di votanti che, sfiorando al secondo turno il 73%, cresce di più di quattro punti rispetto al primo (68,5%). Che l’elezione dell’ex portavoce dei Verdi sia solo una mezza notizia dipende dal fatto che al primo turno Van der Bellen aveva ottenuto solo il 21% (contro il 35% di Hofer) e che al secondo turno è stato scelto da molti elettori che non avevano mai votato per la formazione ambientalista. La sua vittoria di misura, con uno scarto di appena 31.026 voti (molti dei quali provenienti da austriaci che non vivono in Austria), si spiega con la classica scelta del male minore, caratteristica strutturale di ogni ballottaggio, e con la volontà di metà dell’elettorato di far fronte comune contro il pericolo rappresentato dai nazional-liberali, i quali, però, rispetto al primo turno, aumentano di circa 730.000 unità il proprio pacchetto di consensi, mobilitando soprattutto gli elettori che al primo turno avevano votato per il candidato popolare. Non siamo quindi alla presenza di una rivoluzione ecologista nel cuore dell’Europa, come alcuni hanno commentato con soverchio entusiasmo, né lo scampato pericolo può essere festeggiato con eccessi di giubilo. Quest’ultimo sarebbe giustificato se Van der Bellen avesse vinto con l’80%; al contrario, il fatto che soltanto la metà degli austriaci abbia avvertito come pericolosa la probabile vittoria di Hofer rischia di trasformare quella di Van der Bellen nella più classica delle vittorie di Pirro. L’impressione, insomma, è che lo scontro decisivo sia soltanto rinviato, magari alle elezioni politiche del 2018, e che i motivi di preoccupazione non si siano per nulla dissolti.
Rovesciando il vecchio adagio, si potrebbe affermare che la non vittoria (o la non sconfitta) della destra nazionalista e populista ha molti padri, all’interno dell’Austria ma anche dell’Ue. Innanzitutto, è da rilevare che per la prima volta nella storia della seconda Repubblica austriaca si sono sfidati al ballottaggio due candidati che rappresentano culture politiche estranee e avverse al sistema tradizionale dei partiti, socialdemocratico e popolare. Il dato segnala il raggiungimento di una soglia epocale, a testimonianza del logoramento oramai irreversibile sia della «grande coalizione» che governa l’Austria da alcuni anni sia, più in generale, della pratica della «lottizzazione» e del consociativismo su cui si è fondato e legittimato il duopolio della Spö (Partito socialdemocratico) e della Övp (Partito popolare) nel Secondo dopoguerra. Da questo punto di vista, la destra populista ha mobilitato e raccolto la protesta del «popolo» contro le élites politiche ed economiche, diffusa soprattutto tra i ceti medio-bassi. L’analisi del voto, infatti, mostra un Paese diviso anche secondo linee geografiche, di censo, d’istruzione e di genere, con le città, i più giovani, i più istruiti, le donne e i benestanti che hanno votato per Van der Bellen e gli operai, l’Austria rurale, i maschi, i meno istruiti che hanno votato per Hofer.
Se questo è lo scenario di lungo periodo, il catalizzatore dell’opposizione di destra è stato una doppia crisi, quella economica e quella dei profughi, e una profonda ambiguità dei partiti di governo nell’affrontarla. La crisi economica, registrata dal lieve ma costante aumento della disoccupazione negli ultimi anni e dalla debole crescita, ha progressivamente dissipato l’auto-percezione dell’Austria come «isola felice», al riparo dai marosi della globalizzazione, mentre l’emergenza dei profughi nelle ultime settimane è stata benzina sul fuoco di un sentimento diffuso, soprattutto tra i ceti meno abbienti, d’insicurezza sociale e di precarietà occupazionale. A ciò si deve aggiungere l’irresponsabile insipienza con cui il governo, guidato dall’ex cancelliere socialdemocratico Werner Faymann, ha continuato a coltivare, con il proprio immobilismo, l’illusione dell’isola felice, in un mondo in rapida trasformazione per effetto della crisi; esso ha inoltre continuato a civettare con le pulsioni xenofobe ed euroscettiche del populismo di destra, sempre pronto ad additare nell’immigrazione la fonte di ogni allarme sociale per la sicurezza personale ed economica degli austriaci. Il culmine dell’ambiguità è stato raggiunto con la disastrosa gestione dell’emergenza dei profughi; si è assistito a un cambiamento di centottanta gradi nella politica del governo: dall’accoglienza, con cui Faymann sembrava accreditarsi, con Angela Merkel, come alfiere dell’Europa umanitaria e tollerante, alla chiusura del confine orientale alla minacciata costruzione del muro del Brennero all’imposizione di un tetto massimo all’accoglienza dei richiedenti-asilo. Il disinvolto voltafaccia ha legittimato l’estrema destra e conferito diritto di cittadinanza nel dibattito pubblico ai suoi argomenti anti-immigrazione, convincendo nello stesso tempo molti austriaci a votare per l’originale, cioè per Hofer, anziché per la sua copia sbiadita, cioè per i partiti di governo. Dopo la dura contestazione subìta in occasione delle celebrazioni del primo maggio e dopo la batosta elettorale nel primo turno delle presidenziali, Faymann si è reso infine conto di avere perso anche il controllo del suo partito e, giocando d’anticipo, si è dimesso. Ha fatto così in modo che la crisi di governo fosse gestita dal presidente della Repubblica in carica, il socialdemocratico Heinz Fischer, anziché da un probabile presidente come Hofer, che aveva già fatto intendere che in caso di vittoria avrebbe fatto valere tutte le sue prerogative presidenziali, fra le quali rientrano lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e l’indizione di nuove elezioni. Il recupero di Van der Bellen tra il primo e il secondo turno è in parte ascrivibile anche al dinamismo mostrato dal nuovo cancelliere Christian Kern, che ha immediatamente sostituito quattro ministri socialdemocratici cercando di imprimere una svolta riformatrice all’azione del governo, nella consapevolezza di essere giunto al redde rationem.
Inutile nascondersi le grandi responsabilità imputabili anche all’Ue, soprattutto per quanto riguarda il dossier dei profughi e la totale assenza di un suo ruolo nelle tante crisi internazionali che contribuiscono ad alimentare il senso d’insicurezza dei cittadini europei. Inutile evidenziare, altresì, come l’avanzata della destra populista sia un fenomeno non solo austriaco ma europeo (dalla Polonia all’Ungheria, dalla Francia alla Finlandia, dalla Slovacchia al Regno Unito) e come non si possa continuare semplicemente a sperare di riuscire a fermarsi sull’orlo del precipizio, perché alla fine, come la storia insegna, in quel precipizio si finisce col cadere. In Austria, in particolare, la crisi dei profughi e la sua mancata soluzione a livello europeo hanno naturalmente prodotto la rinazionalizzazione delle politiche sull’immigrazione, costringendo Vienna a giocare un ruolo internazionale, come Paese di destinazione ma anche di transito dei migranti verso la Germania e l’Europa del Nord, cui non è storicamente abituata e che ha svolto in modo assolutamente maldestro.
Cionondimeno, la vittoria di Van der Bellen potrebbe anche essere il viatico per dismettere con coraggio ogni accondiscendenza nei confronti dell’estrema destra e delle sue retoriche xenofobe e per riprendere il filo di un discorso pubblico coerentemente europeista, di cui i Verdi potrebbero essere gli ispiratori e gli alfieri nella nuova fase della politica austriaca che si sta inaugurando. Tutto dipenderà da quanto l’esito di queste elezioni sarà in grado di influenzare concretamente l’azione del nuovo governo e da quanto condizionerà la politica delle alleanze dei partiti che lo compongono. Dovrà cambiare necessariamente qualcosa: il timore di elezioni anticipate o la conventio ad escludendum nei confronti dell’estrema destra non potrà essere l’unico collante e l’unica ragion d’essere del governo. Il tempo non è molto, perché da qui alle elezioni del 2018 la Fpö potrebbe rafforzarsi ulteriormente, soprattutto se nulla cambiasse, e porre una seria ipoteca sul futuro governo, anche se la storia politica austriaca insegna che quando questo è accaduto hanno perso tutti, compresi i nazional-liberali.
* Furio Ferraresi insegna Storia delle dottrine politiche nell’Università della Valle d’Aosta
di Paolo Pombeni
di Furio Ferraresi *
di Stefano Zan *