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Un regionalismo ben temperato

Paolo Pombeni - 24.07.2019
Ospedali da incubo

La diatriba sulle autonomie differenziate diventa ogni giorno che passa più pericolosa. Sebbene scaldi l’opinione pubblica meno di quel che si creda, la classe politica ne sta facendo un caso per mandare all’aria l’attuale dislocazione delle varie forze. Il tutto sulla base di ragionamenti astratti, fake news, petizioni che vorrebbero essere di principio, ma che in realtà nascondono calcoli molto miopi.

Sarebbe ora che qualcuno, ma non si sa chi potrebbe essere, richiami a ragionare sulla vera tematica di fondo: come sfruttare il sistema regionale, che i nostri costituenti immaginarono come uno strumento per articolare la sfera pubblica in maniera non solo più efficiente, ma più vicina ai cittadini, in modo che esso produca buon governo. Un dibattito su questo tema è completamente assente, se si eccettuano limitati nuclei di studiosi e di operatori che ci riflettono da anni, ma che non sono riusciti e non riescono ad imporsi sulla scena pubblica.

Invece lo scenario a cui assistiamo è quello di un sistema regionale che per una buona parte dei casi non funziona o funziona male, per cui quella limitata parte che invece è in grado di farlo marciare chiede adesso sostanzialmente di staccarsi dal sistema dello stato nazionale. Lo slogan della “secessione dei ricchi” con cui vengono attaccate queste istanze è sbagliato, nei suoi sostenitori estremisti persino puerile. Non tiene infatti conto del fatto che in una fase di crisi complessiva di sistema la tentazione di salvarsi da soli che prende chi presume di essere in grado di farlo è una reazione psicologica inevitabile. Per contrastarla occorre usare tanto ragionamento e tanto realismo, cominciando a lasciare da parte la sciocchezza secondo cui la promozione di queste nuove autonomie promuoverebbe una differenziazione nel paese: infatti tutti toccano quotidianamente con mano che l’Italia è già un paese che è tutto un susseguirsi di differenze.

Per dire una banalità, chiunque può facilmente vedere il numero di pazienti del Sud che vengono a farsi curare negli ospedali del Nord, così come il numero di studenti meridionali che frequentano le università da Roma in su, mentre non risulta un eguale e parallelo flusso di pazienti settentrionali che vanno a farsi curare negli ospedali del Sud o di studenti del Nord che vanno a laurearsi nelle università meridionali.

Sarebbe facile continuare e si toccherebbero altri punti dolenti della diatriba attuale. Per esempio la questione degli insegnanti meridionali che avendo vinto un posto nelle scuole settentrionali poi cercano con vari marchingegni di non andarci ad insegnare. Non dipende solo  da un attaccamento alle radici locali e familiari (che peraltro vari decenni fa non c’era), ma da fattori come il ritardo generazionale nelle stabilizzazioni (personale già maturo e con famiglia fa più fatica a spostarsi, perché oggi nel nucleo familiare si lavora in due) oppure il divario nel costo della vita fra le diverse parti del paese, per cui con uno stipendio da insegnante si fatica a pagarsi l’affitto nelle città del Nord, mentre si gode di una discreta posizione sociale al Sud.

Richiamiamo aspetti del tutto banali e che quelli che pontificano sul tema delle autonomie troverebbero insignificanti. Lo si fa proprio per dire che il problema non può essere affrontato semplicemente nel quadro del “la regione X (del Nord) vuole tante competenze esclusive, la regione Y (del Sud) piange perché pensa che così non avrà più soldi da spendere”. E’ tutto il sistema del regionalismo che va ripensato e bisogna farlo nel quadro di un più ampio ripensamento del nostro sistema burocratico. Vanno stabilite le responsabilità, le deleghe di funzioni che dovrebbero essere sia controllabili dal potere dello stato (che rappresenta la collettività) sia revocabili con sanzioni nel caso non venissero esercitate in maniera adeguata. E’ necessario mettere ordine nella giungla delle “grida” immaginate per fermare la corruzione e che in realtà non la fermano, ma rendono semplicemente impossibile realizzare le opere: perché se nelle terre del terremoto a tre anni dal disastro non si è riusciti a ricostruire, qualcosa che non funziona ci sarà pure. Magari di sarà evitato che qualche amministratore disinvolto e qualche mariuolo abbiano tratto profitti indebiti, ma se il prezzo è non fare nulla il gioco non vale la candela. Va ridata credibilità ad autorità pubbliche che siano veramente in grado di controllare promuovendo la virtù e non di esercitare il sadismo del controllo come impedimento all’azione altrui.

Naturalmente non abbiamo nessuna illusione che nel momento attuale si possa fare un importante passo avanti nell’affrontare quel problema del regionalismo che si porta sulle spalle le strumentalizzazioni, anche legislative, che negli ultimi venticinque anni hanno messo in campo tanto il centrodestra quanto il centrosinistra. Ormai il treno è uscito dai binari, tutto è stato buttato in caciara e al più è stato ridotto ad un capitolo dello scontro senza esclusione di colpi che ormai viene portato avanti da tutte le forze politiche.

Non sappiamo se per evitare una crisi di governo a breve si arriverà su questo come su altri temi a far passare quel “compromesso negoziale” che tanto piace al nostro premier (che non per caso è un avvocato)  e che i contendenti accetteranno come tregua momentanea. Quel che crediamo sia certo è che appunto di tregua si tratterà, accettata per riorganizzare le rispettive forze: poi arriverà il momento del grande confronto elettorale e lì la questione delle autonomie differenziate verrà rimessa in circolo con tutti i veleni che contiene.

Così si spaccherà il paese con conseguenze non certo felici, soprattutto nel quadro della grande trasformazione mondiale in cui siamo immersi: perché per sopravvivere decentemente in quella abbiamo necessità di essere davvero una nazione, non un paese feudalizzato in fazioni e pseudo-staterelli, che finirebbe facile preda dei nuovi signori del mondo.