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Un governo senza luna di miele

Paolo Pombeni - 17.02.2021
Mattarella e Draghi

Di solito tutti i governi godono nei primi mesi di un periodo particolarmente propizio. Non di rado si parla di 100 giorni di luna di miele. Pare che al governo Draghi non ne toccheranno neppure 10 di quei giorni. Da subito, nonostante un altissimo livello di gradimento da parte dell’opinione pubblica che gli è assegnato dai sondaggi, pesano sul nuovo esecutivo le eredità negative che vengono dal passato.

Non sembra essere premiante l’ambiguità della formula che alla fine è stata scelta da Mattarella e da Draghi, cioè un governo con un forte nucleo politico-tecnocratico, ma annegato in un contorno di ministri politico-partitici scelti con l’occhio  a non scontentare nessuno, ma evitando di avere in quelle fila figure di spessore carismatico. I cosiddetti tecnici (in realtà sperimentati personaggi usi a muoversi nel quadro della politica nazionale e non solo) avranno bisogno di tempo per esplicitare il loro impatto. Al contrario gli uomini di partito sono ancora alle prese con un problema così banale che ci si chiede come mai non sia stato tenuto in conto: parliamo delle elezioni amministrative che fra qualche mese si svolgeranno in importanti città simbolo e anche in altri comuni, dove non sarà evitabile la loro competizione per affermare il proprio peso.

Tutti i partiti della grandissima coalizione hanno bisogno di tenere “in caldo” i rispettivi elettorati e ciascuno lo fa esibendo le vecchie bandierine. L’occasione è arrivata subito con il pasticcio della chiusura improvvisa della stagione sciistica, mal pensata e peggio gestita. Qualcosa di emblematico della pessima situazione generale.

Draghi non ha valutato come fosse importante tenere sotto controllo la sua ciurma e incentrare su di sé la guida della politica. Così si è lasciato che Speranza di punto in bianco annullasse una apertura che era stata non solo promessa, ma regolata in maniera onerosa per gli addetti ai lavori, senza che peraltro il ministro ci mettesse la faccia con quel tanto di drammatizzazione che richiedeva una scelta così drastica e di rassicurazione del paese che testimoniasse la condivisione delle preoccupazioni di chi era colpito da quella decisione. Al contrario ha lasciato spazio al suo consulente prof. Ricciardi, a cui non è sembrato vero di esibirsi nel gran circo dei talk show, cosa che il membro di uno staff ministeriale non dovrebbe mai fare. Per di più non avendo a disposizione argomenti veramente inconfutabili, tanto che è subito esplosa la cacofonia dei pareri di tutti gli esperti-star in circolazione.

In questa confusione si sono subito gettati Salvini e i suoi, che sentono il fiato della Meloni sul collo e che non possono rinunciare a speculare sulle tensioni presenti nella gente. E’ arrivata immediata la risposta di tutti quelli che non vedevano l’ora di riprendere la polemica contro il leader brutto e irresponsabile, pensando così di mettere fra parentesi le loro difficoltà interne (parliamo ovviamente di M5S e PD). Troppi sono tranquilli perché questo non metterà in crisi la fiducia parlamentare al nuovo governo che per certi versi è obbligata e che per altri ha numeri così ampi da poter sopportare senza problemi piccole scissioni.

Solo che il problema non è il varo dell’esecutivo Draghi, ma la forza che questo deve avere per venire a capo dei ritardi gravi che l’Italia ha accumulato negli ultimi decenni. Chi segue gli umori che circolano nei vari media ha già notato che quelli che definiremmo “gli spodestati” stanno già lavorando per evitare il loro definitivo tramonto. E’ un mondo variegato che va dal giornalismo, a cosiddetti opinion leader, ad ambienti delle burocrazie, a personale dei vertici delle diverse corporazioni che sono attive nel paese. Il governo non può permettersi di ignorare questi tentativi di sabotaggio, per quanto più o meno sott’acqua, e deve in qualche modo reagire subito.

Draghi deve dedicarsi a tenere insieme la sua ciurma e a richiamare tutti ad agire come articolazioni di un unico corpo e non come membri di una confederazione in cui ciascuno conserva il diritto a muoversi un po’ come vuole. Se non si organizza in questa direzione, farà fatica a rimettere in riga un arcipelago di burocrazie feudalizzate, per non dire tribalizzate. Deve far sua la famosa frase del ministro francese della guerra ai tempi finali dell’affare Dreyfus a fronte dei malumori della parte conservatrice dell’esercito: “Silenzio nei ranghi!”.

L’impresa non è semplice, ma si realizza solo abituando davvero tutti alla collegialità delle scelte, che devono rimanere in carico ai membri dell’esecutivo nel loro complesso, mettendo fine a quella rincorsa al protagonismo di bassa lega che ha imperversato. Ci vuole disciplina nelle apparizioni televisive e nei contatti coi media in genere non solo per i ministri, ma anche per i vice e sottosegretari (cosa da tempo desueta). Bisogna ridimensionare il compito degli esperti di cui ci si serve, che devono dare pareri sui campi di loro competenza e non presumere di sapere come si possono cambiare il mondo e la storia (in fondo uno dei problemi più spinosi in questa pandemia è che sotto sotto ci sono troppi esperti convinti che sia possibile cancellarla radicalmente). Naturalmente ciò non vale solo per medici e virologi, ma anche per gli esperti in tutti i vari settori in cui si è chiamati ad intervenire.

Solo la Politica, quella vera con la p maiuscola, può essere in grado di produrre quella sintesi che consente di tenere insieme, entro i limiti umani (che sarebbe sempre bene avere presenti), le varie esigenze che consentono ad una comunità di affrontare in maniera solidale la ricerca di un bene comune. Potrebbe essere una buona occasione per riscoprire questa virtù: vediamo di non sprecarla.