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24 aprile 2024
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Tra color che son sospesi

Paolo Pombeni - 15.01.2020
Crisi dei 5 Stelle

Tutto è sospeso nella politica italiana, sempre in attesa di qualcosa: il pronunciamento della Corte Costituzionale sul referendum Calderoli, quello della giunta per le autorizzazioni del Senato sul caso Salvini-Diciotti, quello che uscirà dalle urne di Emilia Romagna e Calabria il prossimo 26 gennaio. Nel frattempo si annunciano grandi progetti, ma molto vaghi, senza avere il coraggio di affrontare il vero nodo della debolezza attuale: la crisi dei Cinque Stelle che getta una grande ambiguità su tutta la situazione.

Infatti è quello il fattore che da un lato impedisce ai ministri pentastellati di lasciar perdere le loro bandierine logore (prescrizione, punizione dei Benetton, ecc.) e dall’altro frena gli alleati al governo (soprattutto il PD e lo stesso Conte) dal mettere Di Maio e soci di fronte alle loro responsabilità. La speranza, vedremo se fondata, è che i risultati elettorali di fine gennaio risolvano da soli il rebus.

In che modo? La risposta è più semplice di quel che si pensi. Se davvero, come sembra, M5S avrà un cattivo risultato in quelle urne, ci sarà un ridimensionamento automatico del peso dei suoi ministri. Potrebbe anche darsi che a seguito di quel risultato la rappresentanza parlamentare pentastellata conoscesse abbandoni e cambi di casacca, mutando così anche la composizione della maggioranza di governo. C’è naturalmente in questo una piccola incognita. Se fosse vero, come dicono alcuni rumors parlamentari, che un gruppo consistente di Cinque Stelle passerà col centrodestra ci sarebbe spazio per Salvini per chiedere una verifica della maggioranza con un voto di fiducia facendo così cadere il Conte 2.

Altre voci di corridoio parlano invece di scissioni grilline che però rimarrebbero nell’ambito dell’attuale alleanza di governo, come si era già ventilato per il gruppo che l’ex ministro Fioramonti era accreditato di stare formando, ma che per ora non si è visto.

Non siamo in grado di far altro che registrare queste voci, ma ci permettiamo di affermare che dal punto di vista degli equilibri di governo tutto dipende dall’esito elettorale del 26 gennaio. Se infatti davvero M5S conoscesse se non quel tonfo che alcuni auspicano, un regresso significativo, la sua posizione si complicherebbe: sia perché si acuirebbe lo scontro fra Di Maio con i suoi sostenitori e gli altri gruppi che agitano i parlamentari pentastellati, sia perché diventerebbe ancora più difficile per il PD fare il donatore di sangue per puntellare un governo sulla cui tenuta non ci sarebbero più garanzie. Teniamo anche conto che in ogni caso M5S ha fissato per marzo i propri “stati generali” (cioè un congresso chiamato con altro nome, tanto per fare un po’ di scena), il che significa che sino ad allora, a meno di un crollo catastrofico, Di Maio e soci saranno costretti a puntare i piedi per difendere quelle bandierine su cui hanno avventatamente scommesso.

Il problema peraltro non riguarda solo M5S, perché anche il PD deve fare i conti con un orizzonte che è ancora avvolto nella nebbia. Non è solo questione di sapere se Bonaccini riuscirà a prevalere in Emilia-Romagna. La sua scelta di puntare tutto su una dimensione “regionale” per spiazzare un avversario come la Lega che invece la butta su quella nazionale non è ancora certo che sarà vincente. L’affetto dei cittadini per l’ente regione, una realtà istituzionale che per la gente comune non è facilmente identificabile, non è detto che sia alto e dunque la propaganda di Salvini che incita a “mandare a casa Conte” può fare breccia anche oltre quello che ci si aspetta. In ogni caso, anche se Bonaccini risultasse riconfermato come pure è possibile, bisognerebbe vedere quale sarà il risultato del PD. Per vincere l’attuale governatore ha puntato al cosiddetto “campo largo”, facendosi una propria lista civica di supporto che ha pescato un po’ dovunque. Se questa avesse un buon successo, il peso del PD risulterebbe ridimensionato e questo non potrebbe che avere ricadute anche sul partito a livello nazionale.

Non dimentichiamo che tra maggio e giugno si voterà in Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana e Veneto (e in oltre mille comuni). Quella è una sfida che certo tocca tutti i partiti, ma in particolare il PD che deve non solo darsi una linea il più possibile omogenea, ma anche fare i conti con i suoi vari cacicchi in quelle diverse realtà (a partire da un personaggio ingombrante come Emiliano in Puglia). Zingaretti ha già lanciato il messaggio di un cambio di “forma” al partito (l’ennesima?) che dovrebbe venire in qualche modo codificata in un congresso in primavera. L’idea, non disprezzabile, è quella di far in modo che le realtà che per semplificare chiameremo “civiche” possano trovare spazio dentro un partito di tipo nuovo avendo una qualche garanzia di non finire ostaggio della sua attuale strutturazione in correnti di professionisti politici. Questo potrebbe evitare una corsa alla creazione di tante formazioni a lato del PD, per quanto formalmente alleate con lui, perché sarebbero poi comunque componenti con cui misurarsi in termini di spartizione del potere.

Come si vede, anche solo a tenere conto del quadro che abbiamo schizzato (tutt’altro che esaustivo) non c’è da aspettarsi che la “sospensione” della politica governativa si concluda a fine gennaio con la annunciata “verifica”. Temiamo che si verificheranno più le incompatibilità fra partiti ciascuno per ragioni diverse con grossi problemi di riorganizzazione che non le possibilità di scrivere la cosiddetta agenda governativa 2023, che ci pare priva delle basi per essere costruita.