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Torna la questione regionale

Paolo Pombeni - 25.09.2019
Francesco Boccia

Il tema del seguito da dare a quanto richiesto da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna in base a quanto previsto dalla riforma costituzionale che ha introdotto le cosiddette autonomie differenziate è stato giustamente e doverosamente ripreso dal nuovo governo Conte. Nel precedente esecutivo esso era stato messo in capo ad una ministra della Lega, Erika Stefani, vicentina, che in una prima fase aveva operato in maniera accurata, per perdersi poi nel vortice delle polemiche interne alla maggioranza gialloverde anche per il crescere delle pretese dei governatori di Lombardia e Veneto, sicché si era bloccato tutto. Ora la faccenda è nelle mani del nuovo ministro, Francesco Boccia, pugliese, che sembra intenzionato a riprendere in mano la patata bollente.

Ovviamente la polemica politica tende a mettere in scena un cambio di passo fra una ministra di un Nordest con inclinazioni da republichetta autonoma e un ministro del Sud preoccupato di difendere il Meridione dallo svuotamento di risorse che si dice deriverebbe da una promozione delle istanze autonomiste dei cosiddetti “ricchi”.

Messa così, la faccenda diventa una farsa, mentre è urgente il problema di giungere ad un equilibrio nelle scelte per il regionalismo che è stata fatta, un po’ alla carlona, da passati governi tanto di destra quanto di sinistra.

Si tratta innanzitutto di ridiscutere un mito che è stato alla base della propaganda con cui si è voluto contenere il para-secessionismo della prima Lega: cioè che l’amministrazione dello stato fosse inefficiente e sprecona perché “lontana” dalla gente, mentre l’affidarsi ai governi regionali avrebbe portato ad una gestione più virtuosa delle risorse per il controllo più immediato che i cittadini delle regioni avrebbero potuto esercitare. L’esperienza non ha confermato affatto quel mito. Si potrebbe banalmente dire che dove c’era un retroterra sociale di un certo tipo le cose funzionavano già bene o abbastanza bene quando erano in mano allo stato ed hanno continuato in questo trend quando sono passate in capo alle regioni. Dove quel retroterra era carente o mancava, quel che non funzionava con lo stato centrale ha continuato a non funzionare sotto i governi regionali.

Alcuni mali endemici del sistema politico-sociale italiano hanno semplicemente cambiato il riferimento: la distribuzione di posti e prebende, la creazione di sistemi per distribuire opportunità di lavoro più o meno clientelare sono passati dall’essere in capo ai partiti nazionali che li gestivano attraverso le catene del centralismo, all’essere in capo ai partiti regionali, che hanno anch’essi le loro catene, opportunamente rimesse a punto. Del resto bastava vedere cosa era successo per le regioni autonome per vedere il rapporto fra il contesto e l’efficienza: bastava fare una comparazione fra la Sicilia e il Trentino-AltoAdige.

Ora cosa è successo con il procedere delle esperienze? Che i contesti in cui c’erano sistemi di cultura civica attrezzati per gestire oneri complessi le cose non solo hanno continuato a funzionare bene (in termini relativi, si capisce), ma hanno prodotto surplus che hanno generato altri surplus. Dove invece la debolezza della cultura civica ha lasciato campo libero alla vampirizzazione delle risorse a pro di potentati locali ristretti, si è innescata una discesa verso gli inferi che neppure tanto paradossalmente riduceva in ultima istanza il complesso delle risorse disponibili. Non è questione che da una parte si sia fatto molto sottogoverno e dall’altra invece ci si sia comportati con adamantina limpidezza amministrativa: il sottogoverno è stato all’opera dappertutto, solo che la capacità di mantenere il fenomeno nei limiti della decenza (mettiamola così) è stato notevolmente differente.

È da una onesta presa di coscienza di questa realtà che dovrebbe ripartire la riconsiderazione del tema dell’implementazione delle competenze delle regioni cosiddette virtuose: si può fare, nel limite di non mettere in gioco la solidarietà nazionale e di non creare le premesse perché alla fine anche le meno virtuose possano approfittarne per conquistarsi spazi di manovra non per un miglior governo, ma per un più lucroso sottogoverno.

La partita è complicata e non servono i mantra pseudo ideologici a favore dell’autogoverno che vorrebbero i presunti “popoli” regionali o a favore del presunto egualitarismo che garantirebbe una gestione centralistica di tutti i servizi. Bisogna intervenire con precisione per poter contemporaneamente sfruttare a pro di tutto il paese le efficienze che alcune regioni possono mettere in campo e intervenire per il necessario riequilibrio delle disparità di opportunità e servizi che un cittadino italiano si trova a disposizione a seconda del luogo in cui gli capita di risiedere (tenendo anche conto che c’è ormai una mobilità territoriale della popolazione).

Su questo terreno è richiesto uno sforzo di realismo e di civismo da parte di tutti gli attori in campo. I tempi sono troppo difficili (leggere le recenti dichiarazioni di Mario Draghi) per pensare che si possa dedicarsi alla demagogia, quel che ne sia la declinazione: vale per il governo nazionale e vale per le classi dirigenti delle regioni, tanto quelle coinvolte nelle richieste di maggiori poteri quanto quelle che resistono alla novità timorose di perdere risorse (non da investire, ma da distribuire ai tradizionali clientes).