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Stato e regioni, cinquanta anni dopo

Luca Tentoni - 22.03.2020
No referendum

Il rinvio delle elezioni di maggio è un atto dovuto, perché nelle condizioni attuali non sappiamo neppure se fra un mese o due saremo ancora chiusi in casa per via del Covid 19. Come i francesi hanno sperimentato a proprie spese, in occasione del primo turno elettorale municipale di domenica 15 marzo, ci sono emergenze pubbliche da non sottovalutare e che richiedono anche il differimento di importanti scadenze nazionali. Detto dell'ineluttabilità dello slittamento del voto nelle sei regioni ordinarie (e in Valle d'Aosta) e nei comuni, resta però l'amarezza per la fine di un'epoca. In maggio, il voto regionale sarebbe giunto esattamente cinquanta anni dopo il primo (1970). Quello che fino al 2005 era un appuntamento quinquennale per quindici regioni e per la politica nazionale (fino a tutto il 1990 era un test per le singole liste; con le coalizioni e la possibilità di votare per i soli candidati presidenti la gara si è spostata sul rendimento dei poli, non più su quello dei partiti) si era, per la verità, andato affievolendo col passare del tempo, a causa di scandali locali e di scioglimenti anticipati dei Consigli per le cause più svariate. Così, all'appuntamento col voto del mezzo secolo si sarebbe giunti con appena sei regioni su quindici, ma almeno avremmo avuto l'occasione per fare un bilancio dell'attuazione regionale e delle vicende (riforma del Titolo V inclusa) che hanno contrassegnato soprattutto gli ultimi due decenni. Invece, il cinquantennio arriva proprio nel momento in cui le regioni affrontano la loro prova più dura, mettendo in campo poteri e risorse per dimostrare di essere in grado di concorrere validamente con lo Stato per far fronte all'emergenza. Alcune lo fanno un po' in ordine sparso, con disposizioni valide per il proprio territorio; nelle scorse settimane abbiamo assistito al dibattito sulla necessità o meno di un indirizzo nazionale o comunque ampiamente concordato fra Stato e regioni della gestione della crisi. In questo frangente è emerso il ruolo - sottolineato da taluni, autorevolmente - dei presidenti delle giunte, oggi diventati (con una dizione impropria ma a tratti quasi scherzosa) "governatori". Nell'emergenza, non si sono sentite le voci dei partiti di riferimento ma solo quelle dei presidenti; la trattativa col governo su tutti gli aspetti da affrontare è stata, ogni volta, fra il rappresentante della regione e l'Esecutivo. I partiti di opposizione sono stati consultati, anche se alcuni di essi si sono limitati a contribuire al dibattito chiedendo genericamente "di fare di più" (aumentare i fondi, chiudere tutto o aprire tutto, eccetera) e altri - per contro - hanno dimostrato senso dello Stato e hanno compreso meglio le necessità che l'emergenza detta ai toni e alla misura dell'agire politico. Tuttavia, se il governo è parso, a tratti, aver compiuto delle scelte un po' spinto dal pungolo mediatico delle opposizioni (in particolare di quella leghista) la realtà è diversa: sono state le regioni, facendosi portatrici delle esigenze e della realtà sempre più drammatica di certe zone, a rendere partecipe l'Esecutivo e - dialetticamente - a concordare con Palazzo Chigi, con gli esperti e con la Protezione civile la linea da tenere. I decreti sono figli del governo, ma anche delle regioni e dei loro presidenti: a consuntivo, sarà forse bene ricordarlo, sia nel caso auspicabile di un esito positivo, sia in caso di fallimento. Nel tracciare un consuntivo di questa vicenda, dovremo occuparci una volta per tutte dell'istituto regionale, o per mettere ordine nel quadro confuso tracciato con la riforma del Titolo V, oppure - come qualcuno afferma esagerando un po' - tornando indietro verso il vecchio articolo 117 della Costituzione. In ogni caso, nell'emergenza le regioni hanno dato tutto ciò che potevano, evidenziando virtuosità e limiti e ponendosi come soggetti in grado di sostituire un'opposizione incerta (e spiazzata, poiché è fallito il progetto - ben chiaro prima che si propagasse il Covid 19 - di dare all'Esecutivo e alla legislatura una spallata letale, magari approfittando di qualche fibrillazione di troppo provocata da partitini della maggioranza). Cinquanta anni dopo, siamo passati dal simulacro di assemblee legislative appena elette e desiderose di dar vita ad una "fase costituente" contraddistinta da grandi speranze e tanta enfasi, ad un sistema regionale forte, ma soprattutto economicamente e politicamente potente. Non sarebbe stato possibile, se a livello nazionale i partiti non avessero accusato crisi di credibilità e se non si fossero creati, dopo la fine della Prima Repubblica, dei vuoti da colmare, arrivare a pensare che tre regioni (due addirittura con referendum popolare locale) avrebbero chiesto enormi e maggiori poteri su molte materie e che proprio quelle tre regioni si sarebbero messe alla prova in una circostanza imprevista e drammatica come l'epidemia del 2020. In qualche modo, dunque, i cinquanta anni delle regioni ordinarie saranno celebrati. Non con un voto e con cerimonie da tempo di pace, ma con la partecipazione in prima linea dei presidenti delle Giunte e dello Stato ad una guerra, dall'esito della quale potrebbe dipendere anche quello della trattativa sulla "devoluzione all'italiana".