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27 marzo 2024
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Il Coronavirus, le scuole chiuse e l’istruzione a distanza

Francesco Provinciali * - 21.03.2020
Istruzione a distanza

La riforma Renzi-Faraone altrimenti definita della “buona scuola” aveva simbolizzato nell’immaginario collettivo la figura del “preside-sceriffo”: ciò a motivo del fatto che sembrava cogliersi nell’articolato (peraltro alquanto disarticolato) del provvedimento legislativo (legge 107/2015) una deriva decisionista che rafforzava le prerogative dei dirigenti scolastici.

Le recentissime puntualizzazioni del Ministro MIUR On.le Lucia Azzolina in materia di formazione e istruzione a distanza introducono una nuova metafora per responsabilizzare i capi di istituto in ordine all’attivazione di iniziative di didattica attuate coi mezzi telematici, in questo periodo di chiusura delle scuole e di sospensione delle lezioni in presenza: quella che li definisce “comandanti della nave”.

Facile intuire la volontà del Ministro di assicurare ‘comunque’  l’esercizio del diritto allo studio garantito dagli articoli 3 e 34 della Costituzione, dalla legislazione dei Decreti Delegati del 1974, dalla legge 517/1977 e dalle successive disposizioni, coerentemente ispirate al principio dell’assolvimento dell’obbligo scolastico  e formativo,  agli alunni costretti a casa dalla pandemia del Coronavirus per effetto del più recente ‘DPCM Conte’ sui provvedimenti restrittivi atti ad evitare la diffusione del contagio, altrimenti facilitata dall’aggregarsi delle classi e dei gruppi di persone fisiche e dalla frequenza degli alunni alle attività didattiche.

Di metafora in metafora la deriva interpretativa dei più recenti titolari del dicastero di Viale Trastevere va nella direzione di un rafforzamento dei processi di decentramento organizzativo-didattico delle istituzioni scolastiche, specie dopo i provvedimenti sul conferimento dello status dirigenziale ai Direttori didattici e presidi (DL 59/1998) e sull’autonomia scolastica (DPR 275/1999).

Gli indirizzi ministeriali non vengono meno e la gerarchia di decentramento autarchico interna al sistema scolastico non si destruttura (vengono anzi rafforzate le funzioni degli Uffici scolastici regionali) ma il trend in atto da anni muove verso un allineamento dei luoghi delle decisioni a quelli della scuola militante, quindi verso la periferia del sistema. Lo scopo è ovviamente quello di valorizzare le potenzialità autogenerative e progettuali del pianeta-scuola  e di favorire uno snellimento nelle procedure decisionali.

Sarebbe interessante approfondire questo aspetto poiché sembra invece – dal tam tam che arriva dalle scuole – che spesso si corra in rischio di introdurre nuovi livelli di burocrazia decentrata, che a volte finisce per essere persino più pervasiva e soffocante di quella tradizionalmente affidata alle autorità centrali.

La nota teoria di Parkinson sulla ”autogenesi degli uffici” finisce per replicare in periferia i difetti del sistema, nell’implementare gli adempimenti, nel creare una discrasia tra quantità sovrabbondante delle procedure e loro effettiva utilità.

Basti pensare all’enfasi data alle riunioni e all’intensità della loro calendarizzazione: viene da chiedersi quanta parte del tempo dedicato agli impegni collegiali e al crescente numero di adempimenti burocratici miniaturizzati in ogni aspetto della vita scolastica, produca alla fin fine un effettivo miglioramento in termini di efficienza ed efficacia della qualità del servizio pubblico erogato e quanto sottragga energie agli adempimenti didattici “in classe”.

Forse si è perso l’orizzonte di senso rispetto alle teorie curricolari e all’impostazione dei processi di insegnamento-apprendimento: “programmare” è “semplificare” e questo pare esser stato dimenticato in quel coacervo soffocante di riunioni, assemblee, comitati, gruppi di lavoro, team, staff e chi più ne ha più ne metta, che finisce col creare una sovrastruttura poco funzionale alla didattica e molto autoreferenziale rispetto agli adempimenti propedeutici, preliminari o validativi.

Si destina – come direbbe Thomas Bernhard – “più tempo a preparare che a fare”.

Chi conosce l’utilità della pedagogia comparativa sa che si tratta di una tendenza quasi fisiologica in atto nei sistemi scolastici dei Paesi della Comunità europea: sistemi formativi consolidati su un forte accentramento dei livelli decisionali muovono verso il decentramento di ruoli e funzioni e verso l’autonomia dei singoli istituti scolasti mentre modelli organizzativi basati sul potere delle autorità locali (scolastiche ed extrascolastiche)  si incanalano nella direzione opposta: quella di compensare l’eccessiva discrezionalità locale con un rafforzamento delle funzioni di indirizzo e di controllo da parte del Ministero centrale, in tema di programmi, modelli organizzativi e coordinamento sulle linee generali che restituiscono una identità nazionale all’apparato scolastico, valga per tutti l’esempio del cd. “common core” in atto nei Paesi anglosassoni: stabilire uno zoccolo duro che garantisca omogeneità nell’uguaglianza dei diritti di accesso e garanzia di esiti formativi finali non condizionati dalla loro localizzazione.

Nell’uno e nell’altro modello organizzativo, con enfasi e peso differenziati, le nuove tecnologie stanno integrando le didattiche tradizionali, centrate sulla lezione frontale, sui libri e sulla scrittura manuale.

E’ noto che in Finlandia il tablet sta sostituendo l’uso del corsivo nell’apprendimento della letto-scrittura, con quali risultati sarà dato a verificare tra qualche anno.

Ma una scuola che ignora le nuove tecnologie rischia di non restare al passo coi tempi.

Anche il sistema scolastico italiano ha prodotto vere e proprie innovazioni  in tema di insegnamento a distanza: basti ricordare da quanti anni è in vigore la cd. “istruzione domiciliare” a favore degli alunni impossibilitati a seguire le lezioni a scuola a motivo di infortuni, convalescenze post-operatorie, malattie.

Chi scrive queste righe ha contribuito a realizzare quel tipo di progetto: siamo stati i primi in Europa e in tema di scuola ospedaliera e di insegnamento a domicilio il “modello Italia” ha costituito un’eccellenza imitata poi da altri Paesi. Questo esempio di insegnamento a distanza si basava tuttavia su una precisa previsione normativa e poteva contare su uffici, strutture, disponibilità di mezzi, dotazioni e risorse programmate. Il richiamo del Ministro Azzolina ad avviare modelli didattici “ a distanza” fa necessariamente leva sulle motivazioni e la volontà progettuale di ogni singolo istituto, essendo tali moduli formativi contestualizzati ad una situazione di emergenza determinata dalla evidenza della pandemia in atto.

I riferimenti normativi cui fa riferimento il Ministro tuttavia sembrano generali e aspecifici  e non suffragati da una espressa previsione normativa.

Occorre considerare la vastità dell’impegno richiesto, per evitare di avere scuole pilota e scuole non dotate di mezzi sufficienti ad avviare tali procedure. Inoltre- con riferimento all’utenza (leggasi alunni e famiglie) – va tenuto presente la vasta tipologia di situazioni domestiche, di disponibilità di mezzi e dotazioni tecnologiche, ma anche elementi oggettivi come l’ordine e il grado di scuola di iscrizione, le discipline, le materie.

Un corso di matematica o di lingua straniera a distanza ha un significato in termini di supplenza alla mancata frequenza scolastica, mentre appare meno sostenibile sul piano logico e comunicativo un analogo tipo di modulo didattico se riferito alla scuola dell’infanzia.

Non va sottovalutato inoltre un altro aspetto prodromico e una precondizione che si rivela essenziale: il cd. “decreto economia” (cioè la pars construens delle iniziative legate alla lotta al coronavirus e alle sue conseguenze) prevede che gli edifici scolastici siano inaccessibili anche al personale Dirigente, docente ed ATA. Ci si chiede come potrebbero avviarsi progetti di didattica a distanza in scuole fisicamente chiuse, per evitare incontri, riunioni e contatti che favorirebbero il contagio.

Se ne deduce che iniziative del genere potrebbero essere assunte a livello di volontariato e dalle abitazioni private dei docenti: non si può infatti immaginare che proprio le scuole siano luoghi di erogazione di un pubblico servizio dove prima e più che altrove vengono elusi i provvedimenti restrittivi del Governo.

Già prima del “decreto economia” si era verificata una situazione contraddittoria nel contesto dello stesso DPCM “Conte” del 4 marzo u.s : nel medesimo art.1) alla lettera a) si vietavano (divieto che resta in vigore) le assemblee, le riunioni e gli assembramenti di persone in luoghi pubblici e privati, mentre alla lettera d) veniva disposta la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado. Tuttavia il comma di cui alla lett. g) dello stesso art.1) consentiva ai Dirigenti scolastici di avviare iniziative di insegnamento a distanza “sentiti i collegi dei docenti”. Ora “sentire il collegio dei docenti” (un organo collegiale istituito con DPR 416/1974) significa all’atto pratico “riunirlo” : si tratta di convocare un’assemblea mediamente costituita da 60/120 persone, violando in tal modo il divieto di riunire una moltitudine di persone.

Eppure risulta che per ottemperare a tale previsione normativa alcuni Dirigenti scol.ci abbiano convocato i rispettivi collegi dei docenti. Forse bastava più attenzione nella stesura del DPCM o un po’ di buon senso nel dare priorità al rischio contagio anziché ai progetti didattici a distanza, vista la gravità della situazione.

Si aggiunga che la chiusura prima regionale e in altre province, poi totale delle scuole era stata preceduta da una disposizione che prevedeva che alunni provenienti dall’estero (segnatamente dalla Cina) potessero essere riammessi a scuola sulla base di una valutazione di opportunità delegata ai loro genitori.

In conclusione: sceriffi, comandanti o più correttamente “dirigenti scolastici” sono spesso chiamati a dirimere e interpretare disposizioni ministeriali contrastanti e di difficile applicazione sul piano organizzativo. In certi casi disposizioni nazionali tempestive, chiare e indiscutibili metterebbero chi le riceve in condizioni meno controverse sul piano delle responsabilità connesse a decisioni da assumere.

E’ un male italiano il “ni”: ma qui si oscilla spesso tra l’omissione e l’eccesso di zelo.

 

 

 

 

* Ex dirigente ispettivo MIUR