Servono navigator alla politica?
Quando si accendono i motori di una campagna elettorale il primo “start” non sono i programmi ma i nomi dei candidati.
Se il potere logora chi non ce l’ha è meglio mettersi al riparo e trovare rifugio in una lista, possibilmente in una collocazione sicura.
Specularmente per i vertici dei partiti è fondamentale piazzare pedine vincenti, uomini di fiducia che attirino consensi e soprattutto voti: la politica però non cerca mai i migliori ma i più fedeli, perché la struttura del potere in Italia si basa sul principio di appartenenza e sulla cortigianeria degli “yes man”.
Così è anche per le imminenti elezioni europee: ogni partito mette in moto la sua “gioiosa macchina da guerra” per individuare, reclutare e posizionare nomi di fedelissimi nei posti chiave.
Si comincia dai capilista e poi giù giù a cascata fino alle vittime sacrificali, coloro che si accontentano di una nomination pur sapendo di essere irrilevanti, di fare i tappabuchi che non compromettano la sicura elezione dei vincitori designati, che si accontentano di vedere il proprio nome in lista, una cosa da raccontare ai nipoti l’essere arrivati ad ottenere tanta fiducia.
C’è un re e un principe, poi i vassalli, i valvassori e i valvassini: ma non accadeva nel Medioevo?
Alle elezioni politiche il gioco è già impostato in partenza, per via dei collegi uninominali e della abolizione delle preferenze, mentre a quelle europee è premiante essere capolista o rappresentante di una enclave blindata: tanti a te, tanti a me, nella distribuzione interna tra le varie correnti, “sensibilità”, o riferimenti a capi e capetti delle seconde linee.
Per chi resta- invece - si va ‘a la guere comme a la guere’. E chi s’è visto s’è visto.
Da sempre – nei periodi di latenza elettorale – i partiti recitano il mea culpa: ci sono eletti che tradiscono, cambiano casacca, si rivelano investimenti sbagliati a motivo di prodezze, gaffe, uscite, entrate, persino avvisi di garanzia che ledono il buon nome del simbolo e la credibilità del capintesta.
Per questo promettono: “d’ora in poi si cambia tutto”, “daremo spazio alla società civile”, “cercheremo candidati con una solida esperienza professionale “… “con una certa caratura culturale”….”attingeremo dalle professioni e dalle best-practices”…. “faremo largo ai giovani e alle donne”….. “applicheremo il principio della alternanza”… “mostreremo volti nuovi” in una parola … “sceglieremo i migliori”.
Lo dicono ai congressi, lo propongono alle primarie, lo recitano come giaculatoria alle assemblee degli iscritti, dai capi corrente ai semplici iscritti.
Le vie della politica sono sempre lastricate di buone intenzioni peccato che alla fine si scelga sempre l’usato sicuro.
Chi comanda lo scettro non lo cede mai: nella scelta dei canditati si divide la torta in modo che possa essere ricomposta – fetta dopo fetta – in altre sedi: si chiama spartizione del potere.
Questo sul piano del metodo.
Rispetto ai contenuti cioè al ‘chi’ e al ‘dove’ – il tale sarà capolista, al nord est, al sud ovest, al centro, nelle isole cc. – si nota un grande fervore che tradisce una strategia d’anticipo: si consultano i sondaggi, si pesano elettoralmente i personaggi, si scomodano gli algoritmi più elaborati ma alla fin fine si vedono sempre le stesse facce.
E qui si acclara che la preoccupazione fondamentale della politica – oltre a quella fisiologica di conservare o conquistare il potere – è di garantirsi una successione indolore, di realizzare una progettualità autoreferenziale.
Così facendo chi gestisce i vertici di un partito non capisce la lezione, anzi le molte lezioni arrivate dal passato, non interpreta o si fa portavoce del desiderio di cambiamento che le giunge dal popolo.
Riproponendo volti di persone che hanno attraversato la politica in lungo e in largo a diversi livelli di esperienza e gestione del potere, i partiti non comprendono che stavolta – di fronte a sommovimenti, dissensi, populismi e ribellioni che mettono a soqquadro l’Europa - è in gioco la loro stessa credibilità, il loro essere permeabili al cambiamento, la dignità di chi sa fare un passo di lato, la sincera volontà di cambiamento.
Oltre a sottostimare i sentimenti dei suoi potenziali elettori la politica finisce inesorabilmente nel non consultare a fondo la società civile, non ne tasta gli umori, non si preoccupa neppure di costituirsi un alibi per dimostrare la volontà di innovare davvero.
Generando ancora una volta, come in tutte le precedenti occasioni, sfiducia, disaffezione, demotivazione.
Vale anche in politica la metafora che ebbi l’onore di ascoltare e di raccogliere da Alda Merini, al suo capezzale, durante l’ultima intervista della sua vita: “Se qualcuno capisce che hai delle doti, delle qualità, che puoi emergere e dimostrare il tuo valore, non te lo permette: ti schiaccia come un implume”.
Ci sono persone che hanno realizzato esperienze culturali o professionali significative e politicamente spendibili, che sono portatrici di valori e di stima e considerazione sociale, che esprimono rettitudine, trasparenza, onestà acclarate nelle realtà dei loro contesti esistenziali.
Ma sono sistematicamente eluse e ignorate, fino a diventare soccombenti rispetto allo strapotere delle lobbie che la politica sa generare e conservare con disinvolta facilità.
Eppure volendolo i partiti avrebbero la possibilità di penetrare nei corpi intermedi della società e dello Stato per estrapolarne esperienze, storie, voci, volti, nomi che rappresenterebbero in modo diretto le istanze di rinnovamento che vengono dal popolo silente e inascoltato.
Non certo attraverso la cosiddetta democrazia diretta, che finisce per distorcere sul web la democrazia rappresentativa: una minoranza di iscritti ad una piattaforma on line che si pronuncia su nomi più o meno noti o si autopropone e viene alla fine scelta con un numero risibile di indicazioni dal basso.
La democrazia virtuale non potrà mai sostituire la partecipazione attiva delle persone che si esprime attraverso sentimenti, dialogo, confronto, emozioni, desideri e che rende raggiungibili e presentabili le candidature in modo trasparente, ciascuno con il suo background di esperienze vissute, di professionalità esperite, di competenze acquisite.
Il problema sta proprio nella carenza di volontà a perseguire questa via che rende penetrabili reciprocamente la politica e la gente, in modo che chi sarà chiamato a rappresentarci sia davvero scelto in base a criteri di meritocrazia verificabile e trasparente.
Parafrasando una nomenclatura resa nota dal reddito di cittadinanza anche i partiti dovrebbero avere i loro navigator per sondare le migliori candidature: basterebbe che fossero ascoltate le voci che giungono dalla società civile, con credito e autorevolezza.
Purtroppo sembra che ancora una volta le decisioni saranno prese dall’alto, in base a criteri di fedeltà provata, di anzianità di tessera, di favori fatti o ricevuti.
Come ha scritto più volte il Presidente del Censis Giuseppe De Rita quando la politica deve decidere e ha paura del nuovo, verticalizza sempre.
Il principale problema del sistema-Italia è la selezione, per merito e competenza, della sua classe dirigente.
* Già dirigente ispettivo del MIUR
di Luca Tentoni
di Gianpaolo Rossini
di Francesco Provinciali *