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Sempre avara mi è quest’erma banca

Gianpaolo Rossini * - 07.06.2014
Mario Draghi

“…e questa moneta, che da tanta parte
d’un mestiere dignitoso gli uomini esclude”. Potremmo cominciare con l’Infinito di Leopardi per commentare le decisioni del 5 giugno 2014 della BCE prigioniera di un orizzonte limitato da una siepe, al di là della quale sembra non voler  avventurarsi, come lo sguardo del poeta. La misura della inadeguatezza della BCE viene dalle reazioni dei mercati. Quelle positive sono tiepide.  L’euro si svaluta sul dollaro di un pelo nel primo pomeriggio del 5 giugno per poi tornare prima del tramonto ai livelli precedenti di 1.36, ovvero sopravvalutato. Gli spread rifiatano, ma solo un pò.

Ma cosa ha deciso la BCE in questa giornata annunciata come punto di svolta verso manovre coraggiose? La conferenza stampa di Mario Draghi e le domande dei giornalisti durano poco più di un’ora e sono la cronaca fedele di un’Europa che vive più di speranze, di paure e di annunci che di politiche coraggiose proiettate verso il futuro.

Draghi abbassa il tasso interesse medio (di riferimento) dallo 0.25 % allo 0.1%. Dunque le banche che depositano euro presso la BCE ricevono ora un interesse negativo dello -0.1% e quelle che chiedono denaro pagano lo 0.4%. Si tratta di una misura che non muove di molto le condizioni del mercato del credito. La BCE è come una mamma che decide di smettere di stirare le camicie ai figli bamboccioni perché poco attivi nel cercare lavoro. Draghi sprona le banche a prestare ad altri, non alla mamma BCE che, se insistono, le punisce con un tasso negativo. La BCE fornirà poi nuova moneta alle banche perché queste prestino di più alle imprese. Ma allo stesso tempo proibisce di usare questi fondi per comprare titoli di stato o fare prestiti al settore immobiliare, senza contare che con questa limitazione si esclude quasi metà del sistema economico. Le manovre di rifinanziamento delle banche avverranno in diverse fasi a settembre,  dicembre 2014,  marzo 2015 e così via fino al 2018. Ci saranno fondi (per ora) fino ad un massimo di 500 miliardi di euro. Il che significa una cifra inferiore su anno al 1% del pil di eurolandia.  Insomma un importo modesto, che deve essere chiesto dalle banche, non immesso necessariamente per intero, e che non cambia di molto le condizioni del credito per le imprese. Le quali hanno bisogno di segnali forti sul fronte delle vendite che queste misure non stimolano abbastanza.

Nella conferenza stampa Draghi afferma comunque che la BCE potrebbe adottare misure non convenzionali (quali?) se la situazione peggiorasse.  E’ un ritornello che la BCE ripete da troppo tempo (dal 2012) per essere creduto. La situazione purtroppo è peggiore di quanto gli analisti della BCE hanno previsto. Sul fronte dei prezzi a Francoforte si attendevano a maggio 2014 una inflazione allo 0.7% in eurolandia mentre le statistiche recitano 0.5%. Le previsioni del Pil del 2014 sono anch’esse riviste verso il basso e ora si viaggia su una crescita dello 0.9% per il 2014 e 1.6 nel 2015. Il primo trimestre del 2014 dice però solo + 0.2% e forse dovremo aspettarci un’altra revisione in basso. Non solo. I conti pubblici peggiorano e in alcuni casi il peso delle manovre di aggiustamento fiscale ha toccato il limite della sostenibilità politica e sociale come le votazioni per il parlamento europeo hanno mostrato.

La BCE continua a rifiutare misure di espansione della creazione di moneta (QE: quantitative easing) attraverso l’acquisto di titoli pubblici e privati senza discriminazione. Non vuole seguire la strada di Usa, Giappone e Gran Bretagna. Persegue testardamente l’idea che i costi di aggiustamento alla crisi nata nei mercati finanziari privati nel 2008 debbano essere sostenuti dai bilanci pubblici e dai contribuenti senza allargare in maniera cospicua la circolazione monetaria. Il risultato di questo è  l’opposto di ciò che si aspettavano alla BCE: debiti pubblici schizzati dal 2008 in tutta eurolandia e una deflazione minacciosa. L’Irlanda, entrata nella grande crisi con un debito pubblico che era circa metà del Pil ora è al 120%, semplicemente perché le casse pubbliche e i cittadini hanno dovuto pagare di tasca loro per risanare le banche che avevano seguito quelle oltreoceano nelle loro vita spericolata.

Il perdurante  rifiuto di fare politiche monetarie che aiutino non solo le banche e il settore privato ma anche il settore pubblico, perlomeno eliminando la piaga degli spread e introducendo gli eurobonds, è il frutto di una rigidità ideologica piuttosto pelosa,  visto che banche centrali nazionali, in verità sussidiarie della BCE, operano in maniera autonoma per intervenire sui tassi d’interesse nel loro paese, come la Bundesbank che fa in casa ciò che impedisce di fare alla BCE in tutta eurolandia.

Nella conferenza stampa del 5 giugno Draghi non usa mai la parola deflazione, ma con prezzi che viaggiano allo 0.5 all’anno e livelli cedenti in molti settori dobbiamo riconoscere che ci siamo ormai dentro fino al collo. Prezzi che scendono inducono i consumatori a posporre l’acquisto di beni soprattutto durevoli e questo può portare le economie allo stallo e al crollo. Draghi cita le survey degli umori dei consumatori che la BCE commissiona e che non sembrano rilevare intenzioni di rimandare decisioni di spesa. Quando queste survey rivelassero questi umori nefasti sarebbe però troppo tardi per intervenire. Gli strumenti monetari sarebbero spuntati e gli interventi dovrebbero essere massicci.

Se la BCE ha come obiettivo la stabilità dei prezzi definita come un tasso di crescita attorno al 2% annuo, occorre riconoscere che da questo tasso ci stiamo allontanando troppo. Così la BCE viene meno alla sua missione. Perchè non bastano annunci. Occorrono ormai politiche poderose e coraggiose. Altrimenti  non ci rimane che “il dolce naufragar in questo mare”.

 

 

* Ordinario di economia internazionale all’università di Bologna