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27 aprile 2024
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Rinascimento parlamentare

Fulvio Cammarano * - 21.04.2018
Casellati e Mattarella

Il fatto che le moderne democrazie siano più interessate alla produzione di governo che a quella di una chiara rappresentanza parlamentare in grado di controllare il potere esecutivo, sta ricevendo un’ulteriore autorevole conferma dalle vicende che caratterizzano le faticose manovre di formazione del governo italiano. Le stesse leggi elettorali sembrano pensate per il regolamento dei conti tra avversari, piuttosto che per ottenere un solido Parlamento, rappresentativo delle tendenze politiche dei cittadini. Per i partiti e i movimenti presenti sulla scena politica italiana, il risultato del referendum del 4 dicembre è sembrato l’occasione non di un’autocritica, ma di un’autodifesa il cui parto è stato il cosiddetto “Rosatellum”, vale a dire una legge elettorale prodotta proprio per limitare l’impatto del malcontento degli elettori.  Il ripristino del sistema proporzionale, infatti, non solo non è stato voluto per far emergere una effettiva rappresentanza popolare, ma al contrario per favorire un sistema di governo di coalizione composto da spezzoni di classe politica numericamente sufficienti a sostenere un esecutivo. Se il Pd e Forza Italia avessero perso meno seggi, avrebbero potuto varare, in un modo o nell’altro, in nome dell’emergenza nazionale,  un governo che sarebbe stato la consacrazione delle diverse forme d’intesa registrate nella collaborazione tra Renzi e Berlusconi negli anni passati. L’esempio tedesco avrebbe, poi, fornito la necessaria benedizione internazionale: così fan tutti! Però la storia è affascinante perché spesso e volentieri l’inciampo è dietro l’angolo, compare un’eccedenza che spariglia le carte e rende inutili tutti i piani. Il voto ha reso impraticabile il progetto. Il problema, tuttavia, ora va ben oltre la natura politica del prossimo esecutivo: non va dimenticato infatti che la lotta tra i partiti non dovrebbe mai trascurare il ruolo dei sistemi istituzionali che la rendono possibile. Alle elezioni del 4 marzo, quasi tutti, vincitori e vinti, si sono presentati come fautori della stessa visione istituzionale, quello della centralità del governo. Alle urne abbiamo constatato come la sconfitta del “progetto del Nazareno” (il quale, peraltro, uscito dalla porta potrebbe pure rientrare prima o poi dalla finestra), non abbia affatto implicato il successo della cultura “del parlamento” o delle istituzioni rappresentative. Al contrario, anche i vincitori non provano alcun interesse reale per le forme della effettiva e consapevole rappresentanza politica. Vogliono il potere (come è naturale), ma senza mostrare una vera attenzione alla forma costituzionale di tipo parlamentare che lo definisce e lo limita, come si evince dalla pretesa di Salvini e Di Maio di governare “a prescindere” dalla maggioranza alle Camere. Entrambi i leader, infatti, si sentono forti di una legittimazione che non ha il proprio fulcro nel Parlamento, ma sul “territorio” e tra la “gente”. Il governo, per loro, non è il risultato di un processo, ma un’investitura popolare. Ed è qui però che, a questo punto, i cittadini dovrebbero interrogarsi per riflettere sui segnali che stanno inviando alla classe dirigente, a prima vista, un po’ contradditori. Da una parte infatti viviamo all’interno di un sistema costituzionale di tipo parlamentare che resiste da decenni ai tentativi di trasformazione in senso presidenziale o semi-presidenziale, ma dall’altra non rinunciamo a pensare, agire, comportarci con le modalità e le aspettative tipiche di una democrazia decisionista, insofferenti delle mediazioni indispensabili in una democrazia parlamentare. Il problema è serio perché la lenta dissolvenza dei partiti non riguarda solo il ceto politico che ne faceva parte, ma anche i cittadini che hanno perso il legame politico-culturale con quelle istituzioni che dovrebbero fare da ponte nel rapporto tra lo Stato e la società. Per questo la vera rivoluzione oggi, a fronte della difficoltà a dar vita ad un esecutivo credibile (e realisticamente destinato alla fibrillazione anche dopo la sua formazione), sarebbe quella di restituire rilevanza al Parlamento che, ricordiamolo, al momento si trova in carica e pienamente legittimato, quanto del tutto inoperoso. Non sarebbe opportuno che i nostri parlamentari dessero un segno di presenza, ad esempio accordandosi per portare avanti disegni di legge ampiamente condivisi? Perché i capigruppo, visto che il regolamento lo consente, non si accordano per portare avanti proposte di cambiamenti ormai maturi, magari privi di particolari implicazioni politiche? Non si tratta di contrapporre ad un esecutivo che non c’è, un sistema di supplenza assembleare. Il governo, inutile nasconderlo, è il cuore dei moderni sistemi politici, ne rappresenta l’indispensabile e responsabile sintesi. Tuttavia, nel tempo, abbiamo finito per disincentivare il ruolo e l’importanza dell’altro grande principio della sfera costituzionale, quello rappresentativo, che dovrebbe poter pensare e operare in modo autonomo dal governo, soprattutto quando questo latita, rifiutando una passiva, quanto nociva subalternità. Per andare in tale direzione è però indispensabile che gli eletti si percepiscano come un corpo rappresentativo che possa muoversi, sempre nel rispetto delle diversità politiche che lo caratterizzano e all’interno del dettato costituzionale, come organo indipendente, recuperando quelle prerogative di istituzione “altra” di fronte al governo. La volontà degli elettori, espressa nel recente referendum, di non smantellare il bicameralismo potrebbe essere interpretata come un’esigenza di avere un reale, ma utile e non certo ostativo, contrappeso al governo. Lo stallo di questi giorni ci offre la possibilità di riflettere su un modo costituzionale di riequilibrare i poteri e di ripensare la tribolata questione del ruolo rappresentanza. La rabbia e il rancore che poche settimane fa hanno ispirato gran parte dell’elettorato, per quanto comprensibili e del tutto legittimi, non sono in grado di mettere in campo un progetto per un nuovo modo di pensare la rappresentanza e tutto ciò finisce per tradursi paradossalmente in una ricerca di governo forte, che non vuol dire certo più autorevole, ma solo più ospitale nei confronti di opachi e incontrollabili spezzoni di potere sottratti al controllo dell’opinione pubblica.

 

 

 

 

* Professore Ordinario di Storia Contemporanea  e direttore del Master in giornalismo all’Università di Bologna