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17 aprile 2024
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Tiro al piccione sull’università

Michele Iscra * - 30.09.2017
Professore in toga

La incredibile vicenda dell’incriminazione di un cospicuo numero di docenti di diritto tributario accusati di avere manipolato dei concorsi (che poi come vedremo concorsi non sono) è diventata l’occasione per il consueto tiro al piccione sull’università italiana e sulle pratiche familistiche e corruttive che vi allignano.

E’ abbastanza curioso che quelli che parlano nella maggioranza dei casi non sappiano esattamente di cosa si discute. Infatti l’accusa di manipolazione di un giudizio non riguarda il concorso per la copertura di un posto, ma i giudizi di abilitazione che danno solo un diritto astratto a poter concorrere in seguito per la copertura di un posto. Insomma, per i non specialisti, sono qualcosa come una laurea, che non da alcun posto, ma solo la possibilità di concorrere poi per ricoprirne uno.

Quando è stato introdotto questo meccanismo c’è stato un dibattito se le commissioni potevano abilitare tutti quelli che lo meritavano o se dovevano avere a disposizione un numero limitato di abilitazioni da distribuire. Proprio per evitare che scattasse il vizietto per cui in presenza di numeri limitati si poteva avere la tentazione di darli ai “propri” lasciando fuori magari altri più bravi si è opportunamente optato per non porre limiti: per abilitare i propri non ci sarebbe stato alcun bisogno di penalizzare altri, tanto poi le selezioni per i posti si facevano in ulteriori concorsi.

Se non si tiene conto di questo non si coglie fino in fondo il disgusto che prende nello scoprire che dei docenti non arrivano neppure a conoscere e condividere queste elementari regole. Non spetta ad un articoletto giudicare se sotto il profilo penale o amministrativo gli indagati siano o meno colpevoli: quella è materia per i tribunali, dove ci sarà ampio spazio per il gioco degli azzeccagarbugli (fra il resto in questo caso riguarda docenti che quello fanno per professione). Quel che non si può fare a meno di valutare qui è un dato che, per essere distaccati, definiremo di costume.

Nelle intercettazioni prodotte i docenti coinvolti parlano un linguaggio assolutamente inappropriato a persone che esercitano responsabilmente la loro funzione. Si buttano a consigliare un aspirante candidato a fare l’italiano e non l’inglese. Sarà anche una battuta, ma è di quelle di cui sarebbe bene vergognarsi, perché danno per scontato che siamo un paese dove si sa che le cose vanno in un certo modo (un famoso sociologo americano, per la verità per casi un po’ più complessi, lo chiamò “familismo amorale”). Poi parlano dei risultati come della spartizione di un bottino: ne abbiamo dato uno a questo, uno a quello, e via elencando. Non una parola sulle qualità scientifiche degli abilitati, come spesso pure si fa,  per sottolineare che la qualità era eccellente, oppure che si notava un qualche calo di performance nella disciplina. Senza dire che risulta un po’ sospetto che tutto si distribuisca con equilibratissima perfezione fra tutte le “scuole” in egual misura.

Per carità, è giusto quello che ha notato giovedì 28 mattina alla radio il presidente dell’ANVUR Andrea Graziosi: sono distorsioni che riguardano soprattutto le discipline più circoscritte e corporative e quelle dove c’è un forte collegamento con le professioni dove titoli e posti accademici hanno ricadute sulle parcelle (il che peraltro non dovrebbe avvenire per le abilitazioni per le quali è vietato lo sfruttamento professionale del titolo, ma si sa siamo in Italia…). Le grandi discipline, scientifiche o umanistiche che siano, hanno standard di serietà ben superiori, pur non potendosi negare che anche lì ci sia a volte qualche accademico dallo spirito forte ma dalla carne debole.

Nel caso in questione il colpo d’immagine per il nostro sistema accademico è deleterio. Inutile pensare che per porre riparo a questo stato di cose si possano inventare marchingegni giuridici e burocratici. Sono decenni che ci si arrovella a complicare tutto, senza riuscire non diciamo ad eliminare la piaga (la devianza è una costante, si può solo marginalizzare), ma nemmeno ad imporre che certi comportamenti vengano sanzionati dalla riprovazione aperta e senza scusanti da parte degli eguali.

Perché il problema vero sta qui. Dando il via alla lamentazione generale sull’università corrotta che sistematicamente esclude i bravi si danneggia la reputazione dei non pochi bravi che vi lavorano e si facilita il fatto che tutti quelli che non sono riusciti a collocarsi nel numero ovviamente ristretto di posti a disposizione si facciano passare per geni scartati a favore di qualche brocco ben protetto. Il danno di immagine che coloro che parlano come i docenti intercettati fanno all’università italiana è notevole, anche se volessimo credere che in realtà si trattava di frasi in libera uscita in conversari privati dove si parla come si mangia, mentre nel comportamento professionale si era fatto tutto per bene (ma per qualcuna delle frasi indagate è arduo da credere).

La cosa che suscita amarezza è che di fronte a quelle rivelazioni non ci sia stata una reazione forte e diffusa dei colleghi che hanno detto: noi così non facciamo e non tolleriamo che altri ci facciano fare queste figure. Noi siamo scienziati e studiosi “italiani” e siccome viviamo nella “repubblica delle lettere” che è internazionale usiamo gli stessi parametri di valutazione di tutte le istituzioni di ricerca sane e combattiamo per tenere alta la bandiera della scienza italiana.

Quando ci saranno queste reazioni coloro che vogliono lavorare da “italiani” nel senso che un indagato ha dato al termine e che mettono davanti alla promozione della scienza le ragioni conservatrici delle loro corporazioni quanto meno dovranno stare attenti a non farsi scoprire.

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea