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24 aprile 2024
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Putin e lo spirito di conquista

Andrea Frangioni * - 03.01.2015
Vladimir Putin

Quando nelle settimane scorse è stato ricordato il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, un’immagine è risultata ricorrente in molti commenti: quella di un ufficiale del KGB di stanza nella Repubblica democratica tedesca rimasto profondamente turbato da quell’evento, che rappresentò la fine del suo mondo, della causa per la quale aveva combattuto.

L’ufficiale, è noto, era Putin e in molti si sono domandati se, soprattutto in questo ultimo anno, con i fatti ucraini, il Presidente russo non si sia mosso per vendicare quella umiliazione. Kissinger nel suo ultimo libro World Order scrive di “enigma russo”; in America, con Michael Ignatieff e Lawrence Summers, si è discusso negli scorsi mesi se l’”autoritarismo mercantilista” del regime putiniano (e di quello cinese) potesse rappresentare un modello dotato di maggiore attrattività rispetto a quello delle “inefficienti” democrazie occidentali. Certo il procedimento in corso in Russia per la chiusura di parte delle attività di Memorial, l’organizzazione per i diritti umani fondata da Sacharov, sembra indicare, anche sul piano simbolico, l’esaurimento di una fase, il consumarsi del sogno di una Russia europea.

Le analisi sull’attuale realtà russa rischiano sempre di essere naïf: che le coscienze liberali non possano che essere ripugnate dai comportamenti di Putin è evidente. Proprio per questo, però, occorre andare oltre una critica astratta ed astorica. Ed allora una suggestione risulta inevitabile, quella di qualificare l’attuale regime russo come bonapartista, una definizione più calzante di quella di “regime ibrido” avanzata in passato dalla scienza politica.

Come i regimi bonapartisti, e a differenza delle dittature novecentesche, il potere di Putin non si fonda su una coerente ideologia e non richiede la mobilitazione delle masse. Come i bonapartismi esso mira piuttosto ad un’alleanza con una classe media ancora fragile ma in ascesa, cui promette, in cambio della rinuncia all’effettivo pluralismo politico, stabilità sociale e condizioni, per così dire, di “libertà privata concreta” (la possibilità di viaggiare, sconosciuta ai russi nell’era sovietica, un certo grado di benessere materiale). Come i bonapartismi, infine, la politica di Putin è intervenuta a riportare ordine dopo cambiamenti rivoluzionari.

Seguendo questa suggestione si è indotti a tre osservazioni. La prima, retrospettiva, è che l’Occidente avrebbe dovuto forse tenere in maggior conto le percezioni, per quanto distorte, delle classi dirigenti russe, alla luce del trauma vissuto da quella società. Ed invece si è lasciato che l’allargamento della NATO venisse vissuto dall’élite russa, a torto o a ragione, come il tradimento di una promessa fatta al momento dell’unificazione tedesca (un aspetto ora esaminato dalla storica USA Sarotte nel libro 1989. The Struggle to Create Post-Cold War Europe). A questo si sono aggiunti la contrapposizione sulla vicenda del Kosovo e la delusione successiva all’11 settembre quando il fermo appoggio di Putin agli USA non ha prodotto quella maggiore comprensione delle posizioni russe sperata a Mosca.

In secondo luogo, se è vero che l’attuale sottile strato di classe media russa deve tutto alla stabilizzazione operata da Putin nei suoi primi anni di potere, il patto tra classe media e potere putiniano appare oggi poggiare su basi sempre più fragili. Il relativo benessere conquistato si è infatti fondato esclusivamente sulla distribuzione della “rendita” dei prodotti energetici, ora molto indebolita, mentre è andata persa l’occasione, nello scorso decennio, di un’effettiva modernizzazione dell’economia russa.

Infine, occorre ricordare che il regime di Napoleone unì ai tratti moderni sopra richiamati (l’alleanza con la borghesia) una capacità di “rivitalizzare” valori antichi che la nascente società commerciale sembrava destinata a dimenticare: la gloria militare, l’onore e l’aspirazione a costruire nuove aristocrazie. E’ lo spirito di conquista di cui scrisse Benjamin Constant nel 1813.

Ed è questa oggi un’altra sfida che l’Occidente “stanco” deve affrontare.

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea, è autore di Salvemini e la Grande guerra.