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14 dicembre 2024
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Napolitano e l’”eccezionalità costituzionale”

Luca Tentoni * - 03.01.2015
Giorgio Napolitano

Il messaggio di fine anno del Capo dello Stato contiene "percorsi di lettura" diversi. Molti sono stati analizzati dai commentatori e dai protagonisti della politica nazionale, perché legati a fatti contingenti. Tuttavia, il discorso può essere considerato come un'eccezionale testimonianza diretta "di prima mano" sull'ultimo quadriennio di vita repubblicana: contiene indicazioni che, quando gli umori e i malumori saranno stati superati dal tempo, potranno essere valutate dagli storici e inquadrate in un disegno più generale di ricostruzione della "tarda Seconda Repubblica". Inoltre, gli appassionati di diritto costituzionale potranno trovarvi delle annotazioni di grande novità e peculiarità. Infine, il linguaggio e l'uso di certe espressioni può essere utilmente analizzato per comprendere come - e fino a che punto - un Presidente può utilizzare i canoni del discorso politico per esprimere giudizi, rivelare fatti e formulare valutazioni senza sconfinare nei toni forti tipici delle esternazioni di alcuni suoi predecessori. Poco dopo le prime righe, ad esempio, Napolitano usa a breve distanza il verbo "condizionare" e il sostantivo "condizionamento". Non è il frutto di una revisione inaccurata, ma un preciso segnale. L'iterazione, che si riferisce alla decisione di lasciare il Quirinale e alla costituzionalità di una scelta così delicata e inedita, serve per far capire alle forze di maggioranza e di opposizione che le scelte che "governo e Parlamento hanno dinanzi" non solo non possono essere influenzate, come dice il Presidente, dalla data delle dimissioni, ma che i partiti farebbero bene a non approfittare del passo di Napolitano per giocare con le scadenze e i tempi. In altre parole - e considerando il contesto più generale nel quale la frase si inserisce - il Capo dello Stato ha scelto di non rinviare ad un successivo messaggio agli italiani l'espressione delle motivazioni per le quali sta per dimettersi, ma – cosa più rilevante - non ha detto quando lo farà e ha ribadito la sua completa autonomia nella scelta del giorno giusto. Lo ha fatto considerando "prioritario il varo di una nuova legge elettorale": non vuole che le forze politiche “usino” le scadenze per ritardare l'approvazione dell'Italicum e subordinare così la natura e la fisionomia del sistema di "trasformazione di voti in seggi" al "colore" della "maggioranza presidenziale" per l'elezione del suo successore, anziché cercare di restare nel merito e di individuare un sistema di voto il più possibile duraturo ed efficace a conciliare governabilità e rappresentanza. Se la discussione sul sistema elettorale diventasse il pretesto per una disputa politica di ben diverso genere, l'iter legis, benché formalmente rispettoso del dettato della Carta Repubblicana, sarebbe invece frutto di quella "eccezionalità" (in questo caso, più politica che istituzionale) dalla quale Napolitano vuole far uscire il Paese con il passaggio delle consegne al nuovo presidente. Un passaggio che in realtà - anche qui, in modo da rispecchiare l'eccezionalità della quale si parlava - viene reso palese e anticipato all'inizio del discorso: "le mie riflessioni avranno per destinatario anche chi presto mi succederà nelle funzioni di Presidente della Repubblica". In altre parole, è come se dal 2013 in poi Napolitano (senza dimenticare le scelte, anch’esse “eccezionali”, compiute nel biennio precedente, che sono molto brevemente richiamate nel passaggio dedicato alle celebrazioni dell’Unità d’Italia) si sia sentito una sorta di "presidente provvisorio" (la cui durata in carica, relativamente al secondo mandato, è singolarmente molto vicina all'arco temporale della presidenza di Enrico De Nicola) chiamato a gestire un passaggio di natura politica e istituzionale (non solo per il linguaggio della pubblicistica ma anche in modo quasi formale, data la portata delle innovazioni al procedimento di formazione delle leggi e al ruolo del Senato nel modello delineato dal disegno di legge costituzionale in discussione alla Camera) in direzione di una nuova Repubblica. Il ritorno alla "normalità costituzionale" presuppone l'esistenza di una transizione che si sarebbe trasformata, a giudizio del Presidente, in un’irreversibile crisi istituzionale, politica e sociale (oltre che economica) se nel "momento di grave sbandamento e difficoltà post-elettorale" del 2013 non si fosse deciso di avviare una fase di accompagnamento "per dare un governo all'Italia, rendere possibile l'avvio della nuova legislatura e favorire un confronto più costruttivo tra opposti schieramenti politici". Il biennio di "proroga" e le motivazioni delle dimissioni non possono dunque essere accostati all'altrettanto breve esperienza di Antonio Segni al Quirinale, perché - pur gravato dal peso dell'età - Napolitano non invoca un'infermità sopravvenuta, sebbene potenzialmente e lentamente sopravveniente, ma soprattutto perché la temporaneità del mandato era già palese al momento del nuovo giuramento davanti ai Grandi elettori. La malattia che giustifica l'interruzione del mandato non è dunque del dimissionario, ma del sistema. E la fase cruciale della cura, sebbene la fine anticipata del settennato al Quirinale sia di solito considerata traumatica, è invece proprio la conclusione dell'"eccezione costituzionale". Una fine, tuttavia, sulla quale lo stesso Presidente mostrava di nutrire molte preoccupazioni, perché - come ha detto nel discorso – al termine del 2013 aveva espresso la speranza (che andava interpretata come una sollecitazione ad agire) che fosse "almeno iniziata un'incisiva riforma delle istituzioni repubblicane". Riforma che allora aveva un'impostazione del tutto diversa da quella votata dal Senato nel 2014. All'inizio del secondo mandato di Napolitano, infatti, si era scelta una via differente per la revisione della Seconda parte della Costituzione; via che è stata abbandonata per imboccare, dopo "la rottura del febbraio scorso" (l'avvicendamento a Palazzo Chigi, avvenuto in modo non indolore) un altro percorso e impostare ex novo - dopo la sentenza della Consulta - una legge elettorale ancora oggi "in corso d'opera" essendo stata approvata dalla Camera, ma in procinto di subire notevoli modifiche in Senato (il premio alla lista anziché alla coalizione; il blocco dei soli capilista e non di tutte le candidature; la variazione delle soglie di sbarramento per premio di maggioranza, accesso al Parlamento e rinvio al turno di ballottaggio). Definendo il concetto di "eccezionalità", Napolitano lascia al suo successore e alle forze politiche più di una "traccia" sul percorso futuro, delineando le caratteristiche non tecnico-giuridiche, ma in certo senso "programmatiche" dell'approdo cui la transizione dovrebbe a suo giudizio giungere: la "lucida percezione del valore dell'unità nazionale" (in contrasto con le spinte secessioniste), il richiamo alle parole del 2006 sul "reciproco riconoscimento, rispetto e ascolto fra gli opposti schieramenti" (in antitesi rispetto alle gravi tensioni che hanno caratterizzato pressoché tutta la Seconda Repubblica) senza che ciò contrasti "con la democrazia dell'alternanza". Coerente con il disegno di Napolitano è una delle frasi finali, che forse chiarisce ancor meglio la tensione verso una "normalità" che sia insieme nuova (per quanto riguarda il quadro costituzionale) e ritrovata, laddove richiama il "senso di responsabilità, senso del dovere, senso della legge e senso della Costituzione, in sintesi senso della Nazione" per creare "quel clima di consapevolezza e mobilitazione collettiva che animò la ricostruzione post-bellica che rese possibile, senza soluzione di continuità, la grande trasformazione del Paese per più di un decennio". In altre parole, Napolitano intende la fine della transizione non come una sorta di "ritorno allo Statuto", cioè agli istituti e alle pratiche della Prima Repubblica (sebbene ne richiami le fasi nascenti e non quelle critiche finali), ma quale recupero delle ragioni ideali che hanno spinto gli italiani e le forze politiche, nell'immediato secondo dopoguerra, a ricostruire le istituzioni e i rapporti civili e sociali, ripartendo da una diversa configurazione costituzionale e del sistema dei partiti. Per certi versi, si può dire che il Capo dello Stato voglia invitare il suo successore a chiudere quella fase aperta all'inizio degli anni Novanta con il messaggio alle Camere sulle riforme inviato dal Presidente Francesco Cossiga. La parabola del "picconatore", insomma, si potrebbe chiudere con l'intervento di un "ricostruttore" (non di un restauratore) mentre Napolitano sembra essersi ritagliato un ruolo anticipatore dell'assetto che (forse) verrà, agendo in qualche modo come "facilitatore" e garante nella transizione che il Presidente dimissionario vorrebbe in via di conclusione e che invece è tutta nelle mani e nella responsabilità degli attori politici del prossimo futuro.

 

 

 

 

* Analista politico e studioso di sistemi elettorali