Politica: scogli in vista
Come era prevedibile, usciti dal confronto sulle elezioni presidenziali, i partiti devono misurarsi con le scadenze del momento. Sarebbe saggio da parte loro lasciar fare al governo e a Mario Draghi vista la delicatezza della situazione, ma siamo in fase pre-elettorale e ormai si ragiona proiettandosi su quella prova. Problemi come una situazione economica non esattamente tranquilla per la crisi dei rifornimenti energetici, l’inflazione che riprende, una ripresa che sembra perdere lo slancio che aveva mostrato nell’ultima fase dello scorso anno vengono affrontati nella solita ottica della richiesta di sussidi, mance e quant’altro, perché così si spera di raccattare voti.
Alcuni lo fanno cercando di salvare le forme, altri con una sfrontatezza estrema (FdI vuole prolungare per 99 anni le concessioni balneari che dovremmo mettere a gara!), ma quasi tutti si fanno prendere dalle domande che arrivano da un paese che pullula di lobby, corporazioni e consorterie. Il vincolo esterno della subordinazione dei fondi UE per il PNRR alla realizzazione delle riforme e ad una buona gestione dei progetti sembra non funzionare più.
Complica tutto una situazione epidemica che sembra virare verso un approdo positivo, il che spinge però alla solita retorica del liberi tutti, che è la via più facile per raccogliere consenso. A dire il vero temiamo che così forse si raccoglierà quello degli esagitati che credono di vedere confermate le loro paranoie, ma si farà salire il disgusto di tanti che si sono adeguati disciplinatamente a salvare l’interesse comune e che si sentiranno ignorati dalla politica. Sono dinamiche non nuove nella storia delle democrazie e che in genere non portano a buoni risultati.
Il fatto è che incombono non solo le elezioni amministrative, dove si voterà con un impianto maggioritario perché è centrale l’elezione diretta dei sindaci, ma anche i referendum. Se come è probabile il loro svolgimento verrà accorpato alla tornata delle comunali per non disprezzabili ragioni di risparmio nei costi, ma anche se i referendum si tenessero in una data separata, comunque però molto prossima a quelle elezioni, c’è da temere che il carattere inevitabilmente “passionale” delle prove referendarie tornerà a spaccare la coesione del paese.
La debolezza di quel genere di consultazioni è nella genericità delle scelte che vengono proposte: sì o no a domande molto generali, la cui attuazione implica poi un passaggio legislativo in cui può succedere di tutto. Il caso più clamoroso fu il voto referendario del 1993 con cui si aboliva il ministero dell’Agricoltura, rapidamente ricostituito come ministero delle Politiche agricole, ma di accoglimenti per modo di dire dei risultati referendari si potrebbe fare una lunga lista.
Ciò significa che avremo mesi di battaglie puramente ideologiche (se non demagogiche) su questo o quel tema, senza sapere come poi potrà andare a finire una volta che il Parlamento dovrà per forza di cose tradurre in una normativa giuridica il generico principio affermato. Aggiungeteci che ben difficilmente a farlo saranno queste Camere, visto che non avranno il tempo per affrontare tematiche così complesse dovendo intanto occuparsi di cosette non tanto banali come la futura legge di bilancio (altrimenti sarà poi inutile lamentarsi che fa tutto il governo senza dare il tempo al parlamento di esaminare appropriatamente) per non dire delle varie decisioni sulle riforme a cui ci siamo obbligati con l’Europa.
Basta guardare a come stanno andando gli esami per la riforma del CSM e quelli per la legge sulla concorrenza, una materia su cui dovremmo adeguarci alla vituperata direttiva Bolkenstein che è del 2006(!). I partiti sono divisi e la larga coalizione che sostiene il governo fatica a difenderne l’azione, anzi nel suo seno sono più quelli che per le più diverse ragioni lo boicottano che quelli che si spingono a farsene paladini.
Il premier Draghi lascia trapelare con chiarezza la sua insoddisfazione per questo stato di cose. Per il momento c’è una certa gara a tirare sassi e a nascondere la mano, almeno nel senso di negare che il proiettile lanciato fosse indirizzato a rompere le vetrate dietro cui lavora l’esecutivo. Non si potrà però andare avanti a lungo in questo modo, specie se la situazione internazionale dovesse complicarsi ulteriormente. La questione dell’Ucraina è un risiko complicatissimo che non è chiaro come finirà: razionalmente converrebbe tanto a Putin quanto ad USA e UE trovare una soluzione diplomatica che non precipitasse tutti in una crisi economica di grandi proporzioni (sperando che non si sia così pazzi da pensare a guerre guerreggiate).
L’Italia in questo quadro è in una posizione delicatissima, perché dipende molto dal gas russo, ma al tempo stesso non può certo svincolarsi dalle sue solidarietà atlantiche. Dovrebbe essere in grado di mostrare una classe politica compatta nel tenere conto di questa contingenza, mentre offre lo spettacolo di piccole beghe di fazione in mano per lo più a personaggi privi della necessaria statura per almeno valutare la portata di quanto ci troviamo ad affrontare.
Quanti mesi di fibrillazioni politiche saremo in grado di sopportare? Le risposte a questa domanda divergono. Ci sono quelli che pensano che sia la tradizionale distinzione italiana (ma non solo): da una parte l’eterno teatrino per i demagoghi di varia caratura, dall’altra il serio lavoro dietro le quinte di coloro che fanno andare avanti la macchina dello stato. Ma ci sono anche quelli che pensano al grande rischio che si corre in questi casi: ad un certo punto tanto a livello interno quanto a livello internazionale ci si stufa dello spettacolino e si arriva alla richiesta di chiudere bruscamente, se non brutalmente con questa fase.
di Paolo Pombeni
di Francesco Domenico Capizzi *