Ultimo Aggiornamento:
02 ottobre 2024
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"La guerre! C'est une chose trop grave..."

Francesco Domenico Capizzi * - 16.02.2022
Simone Weil

La guerre! c'est une chose trop grave pour la confier à des militaires: allocuzione, forse apocrifa, attribuita a Georges Clemenceau, medico e presidente della Repubblica francese, per la sua iniziale formazione ippocratica convinto fautore del primato delle vie politico-diplomatiche sulle operazioni militari. Un principio che sussiste tuttora, nelle dichiarazioni ufficiali di Istituzioni politiche internazionali e nazionali, ma che in tante occasioni vacilla e si disperde in trattative in cui contano, principalmente, le potenze di fuoco esibite e prontamente utilizzabili, magari predisposte e schierate ufficialmente per “esercitazioni”.  

Si è raccontato che Stalin, alla Conferenza di Jalta, abbia chiesto “di quante divisioni” disponesse il Papa, il quale, a sua volta, appena appresa la notizia della dipartita del dittatore russo, avrebbe ribattuto: “adesso vedrà quante divisioni abbiamo lassù!”.

In fondo le due allocuzioni, reali o surreali, rispecchiano visioni contrapposte ma, in questo frangente di “scuola”, unite nella esibizione del potere a rappresentare un unico principio fondato sulla disponibilità di forze armate diversamente costituite ma egualmente efficaci, secondo le rispettive prospettive dell’immanenza e della visione teleologica, ma subito esibibili ed esigibili mentre dimostrano l’irrilevanza di ipotesi dialogiche di pace e costruzione orientate al Bene comune.

Nelle controversie internazionali la forza rimarrà per molti anni la protagonista indiscutibile, nonostante il varo di Trattati, Convenzioni, Organismi specifici internazionali, enunciazioni di Diritti fondamentali e Costituzioni che privilegiano le vie politico-diplomatiche nelle contese internazionali.

Pur stabilendo la nostra Costituzione, all’articolo 11, il “ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”, per decenni non è stata evitata la penalizzazione della libertà di coscienza nel rispondere alla coscrizione militare.  Infatti, la prima norma che ha iniziato a disciplinare formalmente l'obiezione di coscienza risale al 15 dicembre 1972 con legge n. 772, ma si dovrà attendere il D.P.R. del 28 novembre 1977 n. 1139 per ottenere le "norme di attuazione della legge 15 dicembre 1972, n. 772, sul riconoscimento dell'obiezione di coscienza".

In sostanza, agli obiettori viene riconosciuta la facoltà di optare per il servizio civile però della durata di otto mesi in aggiunta alla normale durata del servizio militare, norma dichiarata incostituzionale, con sentenza della Consulta, soltanto il 19 luglio del 1989: “…una sanzione conseguente ad una particolare espressione della persona, nel più aperto contrasto sia con il principio di eguaglianza che con il diritto di libera manifestazione del pensiero, dando vita ad un'ingiustificata valutazione deteriore delle due forme di servizio alternativo a quello armato”. Bisognerà attendere l’8 luglio del 1998 per ottenere pienamente il diritto all'obiezione di coscienza non come beneficio concesso, ma come diritto della persona ad “essere contrari all’uso personale delle armi”.

Finalmente, si può sussurrare, e all’occorrenza gridare, con Simone Weil di essere “contrari alla forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae”, e di rifiutare la volontà di sopraffazione e violenza che acceca e travolge l’umanità intera riducendola a “cosa”.

Nel 50° anniversario del formale riconoscimento in Italia del Diritto all’obiezione di coscienza, e a fronte degli attuali rischi di aggiungere nuove guerre ai 35 focolai già esistenti nel Mondo (la “terza guerra mondiale a pezzetti” di papa Francesco), facciamo nostre le testimonianze di tanti a quell’epoca gridate nelle piazze e da alcuni pagate con la galera, discriminazioni e soprusi: la guerra è una sconfitta per tutti, nessuno davvero vince se non la guerra stessa!

 

 

 

 

* Già docente di Chirurgia generale nell’Università di Bologna e direttore delle Chirurgie generali degli Ospedali Bellaria e Maggiore di Bologna