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Politica: il tramonto della ragione?

Paolo Pombeni - 23.12.2017
Maria Elena Boschi

Il 2017 si chiude con questioni angoscianti sul versante politico anche se per tanti versi la pubblica opinione sembra abbastanza tranquilla. Eppure una serie di segnali inducono a riflettere su un contesto in cui la presa della razionalità sembra quantomeno affievolirsi.

Due fatti eclatanti come il voto a favore della Brexit e quello a favore dell’indipendentismo catalano mostrano che i contesti politici sono spaccati sostanzialmente in due, ma che alla fine prevale, almeno per ora e di misura, il richiamo ad oscuri sentimenti primordiali che privilegiano l’arroccamento di fronte ad un futuro che viene interpretato come incerto. Si potrebbe continuare con gli esempi: anche quel che sta accadendo in Austria si inserisce in questo contesto.

Aggiungiamoci che i leader di questi movimenti che cavalcano le angosce sotterranee, ma neppure troppo, di questo momento storico sono quasi sempre dei giovani, a cui si unisce poi qualche nostalgico di età matura: anche questo è un dato che non andrebbe sottostimato.

Il nostro paese non fa eccezione, ovviamente con le sue peculiarità. Siamo alla vigilia di una prova elettorale che si preannuncia difficile e che è dominata da una lotta feroce per la conquista dell’egemonia sulla parte preoccupata degli italiani, per quanto essa possa al momento presentarsi con un assortimento variegato di preoccupazioni. Ciò che colpisce è che a tutto questo si vuole dare una risposta muscolare, illudendo l’elettorato che la scelta debba cadere non su chi ha maggiore capacità di analisi dei problemi e migliori proposte per affrontarli seriamente, ma su chi è più determinato a risolverli a colpi di bacchetta magica.

Non stupisce che in un quadro del genere ad essere in maggiori difficoltà sia il partito che si è assunto l’onere di governare negli ultimi anni, cioè il PD. Quando Renzi dice che esso paga prezzo per questo non sbaglia, solo che, una volta di più, ferma la sua analisi a metà: paga prezzo perché anch’esso si è poi piegato per tanti versi all’approccio del governare con la bacchetta magica. Non è un caso che quando è arrivato un presidente del Consiglio come Gentiloni che rifugge da quelle sceneggiate si sia assistito ad una crescita notevole di confidenza della pubblica opinione verso la sua azione.

In questo momento però sembra che il PD faccia di tutto per non fare tesoro di questa opportunità, che fra il resto copre anche qualche magagna presente nell’attuale governo, perché è tutto impegnato a difendere gli scivoloni di inesperienza (e talora di autentico dilettantismo) che sono imputabili ad alcune figure dell’entourage renziano. Di questo, come è ovvio che sia, approfittano le opposizioni, sia quelle che puntano più apertamente a sfruttare le angosce della gente (Cinque Stelle e Lega) sia quelle che sembrano scegliere di vestire i panni degli assennati realisti disposti a tornare al buon vecchi andazzo di una politica che cerca di accontentare tutti (Forza Italia).

A noi sembra di cogliere una certa preoccupazione in molti ambienti delle classi dirigenti per un quadro che viene giudicato allarmante. Cerchiamo di esplicitare il ragionamento. Mettersi nelle mani dei Cinque Stelle è un’avventura rischiosa per quanto alcuni dei suoi leader cerchino di accreditarsi come disponibili a venire a patti coi cosiddetti poteri forti (e qualcuno mostra di non essere disinteressato al canto di queste sirene). Riaccreditare Berlusconi significa un salto all’indietro senza troppe garanzie: il leader è molto anziano; l’apporto della Lega per una sua maggioranza è indispensabile, ma il suo costo è molto salato; la possibilità che FI torni ad essere un partito abbastanza “della nazione” è aleatoria.

In astratto il PD rimarrebbe, con tutti i suoi limiti, il solo partito che potrebbe disporre di un know how di governo. Però esso è prigioniero della logica di salvare un piccolo gruppo dirigente che non ha ancora maturato le qualità di una classe politica. Il caso di Maria Elena Boschi è diventato l’emblema di questo provincialismo fatto di sottopoteri arrembanti che si muovono senza conoscere le regole fondamentali dell’agire politico. E’ stato grave nel caso della riforma costituzionale, fatta fallire per queste ragioni quando, nonostante alcune debolezze della sua formulazione (anch’esse imputabili a difetti di cultura politica), in definitiva avrebbe dovuto semplicemente coronare quanto si stava cercando di fare da almeno trent’anni. E’ diventato surreale quando ci si è infilati nella trappola della difesa pubblica di un maldestro tentativo di gestire una crisi bancaria in cui era implicato il padre della Boschi: una difesa fatta a base di arzigogoli sul “se” e sul “di”, su distinzioni poco credibili fra “interessamento” e “pressione” e via dicendo. Roba da avvocatucoli di tribunali minori.

Alla fine il problema che si porrà ad una parte almeno delle classi dirigenti italiani sarà più o meno questo: lasciare andare alla deriva il PD, punendo così politici poco capaci, ma facendo naufragare con essi anche Gentiloni, Del Rio, Minniti, Calenda e tutta una classe di politici di vaglia, oppure, come si diceva una volta, turarsi il naso e votare PD per salvare quelle esperienze, al prezzo però che Renzi e i suoi interpretino il fatto come la conferma della loro preminenza?

Non è un dilemma da poco e vedremo come verrà risolto, anche se, in tempi di declino della razionalità, la scelta sarà nelle mani di un elettorato che in buona parte non bada a queste sottigliezze.