Ultimo Aggiornamento:
13 aprile 2024
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Politica e giustizia: e se uscissimo dall’impasse?

Paolo Pombeni - 26.04.2016
Corruzione e politica

Torna la preoccupazione per un rinnovato scontro fra politica e giustizia: qualcosa di cui proprio nella difficile contingenza presente non si sente davvero il bisogno. Soprattutto se lo scontro è in definitiva più uno scontro fra poteri che un confronto fra differenti ragioni, come temiamo tenda di nuovo ad essere.

Siamo convinti che invece anche in questo campo sia possibile ragionare, ammesso che tutti conoscano i termini entro cui inquadrare il problema senza chiudersi in preconcetti e pregiudizi che non aiutano nessuno.

Per la verità non possiamo fare a meno di notare che lo scontro più che fra politica e magistratura è fra una certa rappresentanza dei pubblici ministeri e una classe politica che si sente sotto tiro. Non è una cosa banale: avrete fatto caso che tutti quelli che intervengono nel dibattito sul fronte della magistratura sono parte della funzione inquirente piuttosto che di quella giudicante, mentre è la seconda che, in verità, sarebbe la detentrice a pieno titolo del famoso “terzo potere”. Altrimenti è poi inutile stupirsi se un avviso di garanzia equivale ad una condanna e se si tende ad individuare il potere giudiziario come un potere di polizia (con conseguente calo della fiducia pubblica nel sistema della giustizia).

Detto questo, va altresì notato che la superficialità con cui la classe politica ha affrontato e continua ad affrontare il problema della corruzione è molto preoccupante. Il trincerarsi dietro alcune normative che si sono approvate e che indubbiamente sono da salutare con favore non è sufficiente, anzi dà ragione a quella parte della magistratura che è convinta che la lotta alla corruzione sia una questione da codice penale (anche qui, per essere obiettivi, molti magistrati non accettano affatto questa tesi).

La corruzione è un complicato problema di costume che mescola comportamenti chiaramente illeciti con costumi della cui pericolosità non si è coscienti. Davvero in questo caso dovrebbe valere il principio della tolleranza zero: non in senso penale, ma in senso sociale. Un paese come il nostro, dove per antica tradizione siamo convinti che non si ottiene nulla se non si ha qualche santo in paradiso che ti aiuta, fa fatica poi a discernere l’aiuto all’amico, che sembra un normale dovere di solidarietà, dal “favore”, poi dallo “scambio” e infine dalla corruzione vera e propria.

Bisogna essere ciechi per non vedere quanto sia radicato questo modo di considerare le cose: l’esperienza quotidiana di quasi tutti ce ne fornisce numerosi esempi. Altrettanto vero è però che troppo spesso senza il famoso “santo in paradiso” non si ottiene quel che sarebbe giusto avere, anche se poi la consapevolezza di questa realtà porta moltissimi a ritenere che ogni volta che non si ottiene qualcosa sia perché non si è trovato l’aiuto giusto (di qui questa degenerazione per cui si diffonde l’idea di avere sempre “diritto” a vedere riconosciuto il proprio interesse).

La politica deve dunque mettere mano con rigore e in tempi brevi al problema della sua autoriforma, anche senza avere paura che così facendo perda consensi. Altrimenti lascerà quella bandiera nelle mani dei populisti che, come si è visto in queste ultime polemiche, sono lesti a correre al fianco dei fan dei tribunali di salute pubblica.

Il tema è delicatissimo perché la distinzione fra il comportamento socialmente inaccettabile e il reato non è che sia sempre semplice da individuare. Fra i vari guasti che questo ha comportato c’è la corsa alla divulgazione di tutte le intercettazioni con la convinzione che il rilevare comportamenti socialmente inaccettabili spieghi il fatto che ci si trovi in presenza, per così dire, di inclinazioni al reato. Al tempo stesso questo porta poi a processi che non si concludono per la facilità con cui gli avvocati smontano i materiali e giocano al rinvio, per cui la prescrizione agisce come valvola di sfogo, oppure che si concludono con assoluzioni che sembrano clamorose.

Una lotta per la supremazia di potere fra una componente di magistrati che si sentono i tutori del recupero della moralità pubblica ed una componente di politici che ritengono che per rilanciare lo sviluppo del paese bisogna poter agire con una certa disinvoltura è il peggio che può capitare al paese, per la semplice ragione che non è un sistema accusatorio nelle aule di giustizia, né un uso disinvolto delle possibilità di intervento in mano alla politica ciò che libererà l’Italia dalla palla al piede della corruzione.

Per vincere questa che è una battaglia storica e che deve essere legata la rinnovamento complessivo del nostro sistema (non solo politica e magistratura, ma giornalismo, industriali, università, associazioni varie, giù giù fino al modo di pensare di larga parte degli italiani) c’è necessità di costruire una larga alleanza trasversale con un paziente lavoro sul cambiamento delle mentalità collettive. I presunti scatti in avanti delle altrettanto presunte avanguardie servono solo a favorire quella confusione di cui profittano gli eterni gattopardi, quelli che in fondo vogliono solo che in un mondo in cui molto cambierà non vengano toccate le loro posizioni di potere.