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Perché la crisi di governo dello scorso agosto. Una ipotesi contro corrente

Maurizio Griffo * - 21.09.2019
Primo e secondo governo Conte

Adesso che il governo Conte bis ha iniziato la sua navigazione, è forse opportuno tornare a interrogarsi sui motivi che hanno indotto il leader della Lega Salvini ad aprire in modo inaspettato la crisi di governo in piena estate, accompagnandola con la richiesta tassativa di elezioni politiche subito.

Pur in una varietà di valutazioni e di apprezzamenti, il giudizio prevalente di quasi tutti i commentatori è che la scelta del leader leghista sia stata una scelta poco felice dettata da un calcolo errato dei fattori in gioco. Anzitutto, Salvini avrebbe commesso un errore di valutazione, immaginando di trovare una sponda immediata nel Partito democratico, interessato anch’esso a nuove elezioni per consolidare e confermare il risultato delle elezioni europee che lo ha visto sopravanzare il movimento 5stelle. Altri osservatori rilevano che Salvini avrebbe trascurato gli attuali equilibri parlamentari, dove i grillini sono e resteranno, per tutta questa legislatura, il partito di maggioranza relativa. Una variante di questo giudizio è che l’esponente leghista, pressato dalla richiesta di una parte consistente del suo partito desideroso di confermare alle elezioni politiche il risultato delle europee, avrebbe sottovalutato il potere discrezionale del Quirinale.

A nostro avviso queste analisi non colgono completamente nel segno. Crediamo infatti che la scelta di aprire la crisi di governo sia stata determinata anche, e forse soprattutto, da un’altra considerazione. Cioè dal desiderio di non voler assumersi la responsabilità di varare la legge di bilancio. Negli ultimi quattordici mesi la politica economica del governo giallo verde è stata del tutto deludente. Le misure qualificanti, la cosiddetta quota cento e il reddito di cittadinanza, hanno significato un esborso di denaro a debito, deprimendo la crescita che, sia pure modesta, aveva caratterizzato i due anni precedenti. Occorre inoltre considerare che il ministro del tesoro Tria era intenzionato a mettere paletti vigorosi sulle spese a debito improduttive. Infine, rispetto a Bruxelles non sarebbe stato conveniente ripetere la sceneggiata dello scorso anno, prima facendo la voce grossa e poi mettendo una più remissiva pezza a colori. Meglio, molto meglio, la crisi. Se fossero arrivate le elezioni tanto di guadagnato, se no ci si poteva collocare comodamente all’opposizione, denunciando il trasformismo e la colpevole sudditanza dei grillini nei confronti dell’Unione europea.

In sostanza, quando si analizza l’operato della Lega non bisogna mai dimenticare che si tratta di un partito a vocazione demagogica, sprovvisto di una decente cultura di governo. A tal proposito converrà ricordare un episodio di alcuni anni addietro. Nell’estate del 2011 la UE inviò al governo italiano, guidato all’epoca da Berlusconi, una lettera in cui sollecitava alcune misure che avrebbero aiutato a superare la crisi economica. Si chiedeva fra l’altro la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, la riforma delle pensioni (con aumento dell’età pensionabile), un rigoroso controllo delle spese regionali e locali. Misure certo non draconiane, volte ad alzare, almeno un po’, il tasso di competitività della nostra economia. Ma si trattava di misure sgradite alla Lega, che avrebbero potuto scontentare il suo bacino elettorale e le sue rendite di posizione negli enti locali. La Lega che, dopo la defezione dei finiani, era decisiva per la tenuta del governo non volle dar seguito a nessuna delle richieste di Bruxelles,

paralizzando il governo. Così mentre lo spread saliva i dirigenti leghisti erano impegnati in una chiassosa manovra diversiva: il trasferimento dei ministeri a Monza.

Sappiamo come andò a finire, in autunno, con lo spread a 500, il governo Berlusconi si dimise passando la mano a Monti.

Ecco, tenendo a mente il comportamento passato della Lega, postulare che nella decisione di aprire la crisi abbia pesato anche la ripulsa per scelte di politica economica non demagogiche è una ipotesi da prendere in seria considerazione.

 

 

 

 

* Insegna presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Federico II di Napoli