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13 novembre 2024
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Pasticcio all’emiliana

Paolo Pombeni - 11.09.2014
Stefano Bonaccini

Il gioco di parole è troppo facile, ma la verità è proprio questa: quello che sta combinando il PD in Emilia Romagna, col sostegno di una direzione nazionale piuttosto sbandata è un vero e proprio pasticcio. La questione, diciamolo subito, non è l’indagine su Bonaccini e Righetti per le cosiddette “spese pazze” nell’ambito dell’utilizzo dei rimborsi spese alla Regione Emilia-Romagna. E’ l’insipienza generale con cui si è gestito il problema della successione al potere di Vasco Errani e del sistema che si è mosso intorno a lui.

Intendiamoci subito: qui al termine “sistema di potere” non diamo alcuna accezione pregiudizialmente negativa. Quando qui come in qualsiasi altra istituzione c’è un vertice che rimane tale per 15 anni è inevitabile che esso lasci quella che una volta si sarebbe chiamata una “impronta”, ma che è più corretto chiamare un “sistema”: un modo di gestire la sfera del potere politico costruendo equilibri, cooptando forze, gestendo reti di relazioni, scegliendo chi privilegiare e chi emarginare o semplicemente ignorare. Scandalizzarsi per questo è da farisei: tutti i sistemi politici funzionano, inevitabilmente, così, c’è solo da chiedersi se hanno funzionato bene o male.

Nel caso emiliano-romagnolo è semplicemente successo  quel che Andreotti non voleva ammettere: cioè che il potere logora, che un “modello” che è funzionato bene per un certo periodo è poi divenuto una gabbia che non favoriva l’avvento di nuove classe dirigenti e l’esplorazione di soluzioni innovative rispetto alle sfide poste dal mutare della situazione generale. Il PD emiliano-romagnolo è stato sempre più un partito “conservatore”, anche se aveva la fortuna di conservare un sistema che per tanti versi non era ovviamente da buttare via.

Tuttavia la fine dell’era Errani, che sarebbe inevitabilmente arrivata, perché anche senza la sua condanna in secondo grado non avrebbe potuto ricandidarsi, poteva porre un tessuto importante come quello emiliano romagnolo e soprattutto la sua classe politica egemone di fronte all’opportunità di programmare una nuova stagione. Il vecchio PCI l’aveva fatto, in condizioni non certo facili, intorno agli anni Sessanta, ma allora c’era una classe dirigente.

Invece, diciamo le cose come stanno, la successione ad Errani è stata gestita come una battaglia interna tra le piccole elite burocratiche di partito che si sono formate nella ristrutturazione della vecchia “ditta” bersaniana trasformatasi facilmente in PD, perché qui la tradizione di un certo consociativismo con le classi dirigenti di altre aree, democristiane ma non solo, ha una sua lunga tradizione. Errani è stato indubbiamente rigoroso a dimettersi in segno di rispetto verso una condanna non definitiva, ma facendolo ha messo a nudo il fatto che nessuno aveva preparato alcuna successione. Anzi il partito, o meglio la “ditta”, cioè i suoi ceti dirigenti, avevano solo il problema di come fare in modo che la successione tenesse insieme la salvaguardia dei gruppi dirigenti legati alla vecchia tradizione e i nuovi innesti della politica professionale confluita nel PD da altri fronti. Tutto questo per non disturbare il complesso equilibrio che si era realizzato fra istanze sociali, forze produttive, sistema delle coop, mondo delle professioni intellettuali e via elencando.

Per questo fin dall’inizio la “ditta” ha visto con notevole fastidio la candidatura alle primarie dell’ex sindaco di Forlì, il prof. Renato Balzani, che invece, in teoria, avrebbe potuto rappresentare una ottima soluzione di guida nella transizione. Balzani infatti è un cinquantenne, ha un eccellente background intellettuale, ha una sua statura pubblica (il libro sulla sua esperienza di sindaco, Cinque anni di solitudine, Il Mulino, è stato un bel successo), è espressione della storia della regione, ma ha l’apertura internazionale e il senso del cambiamento necessario. Ma ha un peccato capitale: è diventato sindaco di Forlì sconfiggendo in primarie aperte e grazie al sostegno della società civile della sua città la precedente sindaco che era una espressione dell’apparato PCI. Questo la “ditta” non glielo ha mai perdonato e, naturalmente, la sua opposizione al “sistema Errani” durante il suo periodo di sindaco non ha ricomposto la frattura.

Tuttavia il problema di fondo non è tanto questo: si capisce che Balzani non piaccia al suo partito e non stupisce che Renzi non ne colga le potenzialità come simbolo, perché Balzani non fa parte del cosiddetto “giglio magico”. Quel che meraviglia è che a fronte di una crisi tanto evidente, innescata ora da un evento prevedibilissimo (tutti sapevano delle indagini sulle spese in regione, dove, in mancanza di regole chiare e con gestioni quindi fatte un po’… ad occhio, chiunque può finire nel tritacarne di un’inchiesta), non si riesca a proporre altra soluzione che correre alla manipolazione di vertice, buttando in campo supposti “briscoloni”.

Non ci vuol molto a capire che questo certo non galvanizzerebbe gli elettori. Per restare ai nomi che circolano, Poletti è un’espressione del mondo coop, cioè del “sistema”; Del Rio, è molto apprezzato, ma la sua investitura verrebbe presa come la defenestrazione da un ruolo centrale di un politico di ottima levatura per sanare una questioncella di partito. Non parliamo delle altre alternative.

Coi tempi che corrono, lavorare per distruggere quel che resta dell’immagine positiva dell’Emilia Romagna può convenire alla “ditta”, ma non conviene né al governo né al paese. Vista la assenza delle opposizioni non mette a rischio il “posto”, ma distrugge la “credibilità”, bene anche più prezioso (e con l’astensionismo in crescita …).