Etica del fine vita. I casi di Gustavo Cerati e Hans Küng
Lo scorso 4 settembre è scomparso a Buenos Aires Gustavo Cerati, cinquantacinque anni, uno dei più celebri esponenti della storia della musica argentina. Era in coma dal 15 maggio 2010, quando era stato colpito da un ictus dopo un concerto tenuto in Venezuela con la sua band.
Medicina e speranza
Per comprendere la rilevanza del musicista nella cultura argentina e latinoamericana in genere al lettore italiano può essere utile qualche rimando. La presidenta Cristina Kirchner ha decretato due giorni di lutto nazionale, i principali quotidiani sudamericani hanno riservato le prime pagine alla notizia della sua scomparsa. Nel periodo della malattia di Cerati si sono messe a confronto le opinioni di chi si chiedeva il senso del prolungamento di una vita vegetativa e chi invece si appellava alla speranza, prima tra tutte Lilian Clark, madre di Gustavo. Lo stesso direttore della clinica ALCLA, dove l’artista ha finito i suoi giorni, ha dichiarato che nella storia clinica del paziente vi fosse molto più spazio per una speranza di fede che per la realtà scientifica.
La scomparsa del cantautore argentino ha ancora di più contribuito a rinnovare il dibattito sulla liceità della morte assistita, dando voce anche a chi mette in evidenza come in casi simili i medici, in accordo con i familiari dell’ammalato, possano procedere in tal senso senza dichiararlo e aggirando così i divieti normativi vigenti in tanti paesi. Molti ricorderanno, in occasione della scomparsa di Eluana Englaro, le rozze obiezioni mosse da chi si chiedeva perché non ci si fosse comportati seguendo una presunta prassi mantenendo il silenzio davanti all’opinione pubblica. Ci si dimenticava il valore delle battaglie civili e delle esigenze etiche di una famiglia segnata dalla sofferenza.
Morire felicemente
Tre giorni prima della scomparsa di Gustavo Cerati è uscito un libro del discusso teologo cattolico svizzero Hans Küng, intitolato “Morire felicemente?” (Glücklich sterben?, Piper, München), scritto in forma di dialogo con la giornalista tedesca Anne Will. Noto per le sue posizioni di forte critica nei confronti della Chiesa cattolica e del papato in particolare, da anni il teologo sostiene la tesi che il suicidio assistito non sia contrario al sentire e al pensare religioso. Ciò che risalta nel nuovo libro è però la correlazione tra convinzioni etiche-scientifiche e storia personale. Ottantaseienne, Küng soffre infatti del morbo di Parkinson e di recente è stato vittima di una gravissima crisi. Secondo lui la rinuncia al dono della vita potrebbe anche rappresentare una scelta responsabile di fronte a Dio e all’umanità: la definisce un diritto e fornisce le giustificazioni teologiche che, a suo parere, sostengono la tesi. Dovrebbe essere un morire consapevole (quello che però a Gustavo Cerati, Eluana Englaro e molti come loro non è stato concesso), nella pace interiore, come uomini e donne e non come vegetali. Küng aggiunge che il suo modo di testimoniare la fede nella vita eterna sta anche nella liceità del rifiuto di prolungare indeterminatamente l’esistenza terrena. È noto che in Svizzera questa sia una possibilità legalmente concessa. Al contempo, la morte volontaria è condannata dalla Chiesa, peccato mortale (sia di chi la sceglie, sia di chi la agevola) secondo una dichiarazione congiunta delle Chiese cattolica ed evangelica tedesche.
Le due storie di vita (e di fine vita) raccontate sopra sembrano i tipici opposti che si attraggono: la ancora giovane star del rock e l’anziano teologo. Stanno però a raccontare due degli innumerevoli aspetti di una questione davvero rilevante. I commenti alle tesi di Küng si dividono tra chi le condanna in toto, spesso con parole violente e offensive e chi invece si rallegra nel registrare una posizione simile da parte di un membro della Chiesa cattolica. Sono segnali della necessità di un dibattito, che sarebbe bene però si tenesse lontano da prese di posizione ideologicamente preconfezionate.
di Paolo Pombeni
di Claudio Ferlan
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