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Paralleli storici?

Paolo Pombeni - 01.04.2020
Tabula Rasa

Nella confusa situazione politica con cui stiamo affrontando l’emergenza del Covid-19, conosce una certa fortuna il dibattito su come si debba o si possa realizzare una situazione di “solidarietà nazionale”. L’occasione è data dalle sollecitazioni che vengono dal presidente Mattarella e dalla scarsa rispondenza che trovano tanto nell’opposizione quanto nel governo e nella sua maggioranza. Al netto degli apprezzamenti di rito, piuttosto ipocriti, alla soluzione di un governo di unità nazionale non pensa seriamente nessuno. L’invocazione a Mario Draghi, eletto alla candidatura di salvatore della patria, è un escamotage per bruciare l’ipotesi di una soluzione che potrebbe venir richiesta dalla UE come garanzia per un sostegno all’Italia, visto che sulla “virtù” del nostro paese come utilizzatore di fondi comunitari sono in molti ad avanzare dubbi.

Non pochi fra coloro che riflettono sulla situazione attuale si lasciano andare a paralleli storici, in genere con il nostro secondo dopoguerra. In quel rinvio c’è un intento consolatorio, perché allora il paese seppe risollevarsi da una catastrofe provocata dalla sconfitta in guerra, ma anche un ardito rinvio al fatto che quella ricostruzione sarebbe avvenuta in un clima di concordia nazionale. Anzi, tenendo conto della attuale difficoltà ad intendersi fra forze della maggioranza e dell’opposizione, si rimarca che allora la collaborazione si esercitò fra componenti che si collocavano su sponde opposte sia come ideologia che come riferimenti internazionali.

Il parallelo funziona, ma sino ad un certo punto. Innanzitutto bisogna tenere conto del fatto che ci si muoveva in un contesto di tabula rasa: tutto il sistema politico precedente, non solo quello fascista, ma anche quello monarchico-liberale, era stato cancellato dai suoi errori. Per questo si operò in un contesto totalmente nuovo, riconosciuto come tale da tutti e si passò da un governo in cui sedevano tutti i partiti antifascisti, ad un esecutivo uscito da una regolare elezione (giugno 1946), la prima dopo un intervallo ventennale, dove i tre partiti della maggioranza governativa, DC, PSI, PCI, avevano raccolto oltre il 70% dei consensi. Peraltro quel governo durò solo fino al maggio 1947, essendogli succeduto un governo di matrice “centrista”: al famoso “tripartito” si dovette il varo della costituzione e la ricostruzione del sistema democratico che vi era connesso, mentre la ricostruzione economica fu in realtà realizzata sotto i governi centristi e con la fiera opposizione delle sinistre.

Comunque è indubbiamente vero che quella collaborazione, allargata prima a tutti e poi consacrata a tre partiti di punta,  fu essenziale per la legittimazione del partito comunista, che venne così sottratto, certo con la fattiva collaborazione del suo leader, alle sirene del rivoluzionarismo anticapitalista su cui pure insistevano ancora le sirene inviate da Mosca. In quest’ottica il successo della ricostruzione postbellica va indubbiamente riferito alla scelta di attrarre tutti nell’arena democratica: senza quella garanzia di pacificazione sociale (sostanziale: al di là delle retoriche propagandistiche) non sappiamo se l’Italia sarebbe ripartita in maniera così efficace (e non si dimentichi che De Gasperi e i suoi resistettero alle pressioni che venivano dagli USA della prima guerra fredda di mettere fuori legge il PCI).

Tuttavia se quel dopoguerra fu un successo, ce n’è un altro che non lo fu e che presenta, a nostro giudizio, molte più analogie con la situazione attuale: si tratta del primo dopoguerra, di cui celebriamo in questi anni il centenario. Allora non vi fu alcuna tabula rasa, anzi al governo c’erano le classi politiche e gli uomini che avevano “vinto la guerra” (anche con un notevole consenso patriottico nella fase tragica dopo Caporetto). Ebbene quella classe politica rifiutò qualsiasi ipotesi di riconoscere i tempi nuovi favorendo quella “unione nazionale” che sarebbe stata necessaria per governare la riconversione economica dopo l’emergenza della guerra. Tutte le forze politiche in campo rimasero prigioniere delle loro tradizioni precedenti: i liberali convinti di essere l’unica forza politica che avesse la maturità e la storia per detenere il potere; i socialisti rimasti impelagati nella loro diatriba sul massimalismo che adesso subiva il fascino del successo dei bolscevichi in Russia; i popolari cattolici, con un sacco di problemi a collaborare con due ideologie condannate dalla Chiesa come erano tanto il liberalismo quanto il socialismo.

Quando le tensioni sociali provocate dalla difficile riconversione dopo l’emergenza invasero il paese (scioperi agrari, occupazione delle fabbriche e quant’altro) non si fu capaci di promuovere quella solidarietà nazionale che pure sarebbe stata necessaria. Non si riuscì a farlo neppure di fronte al montare dell’alternativa fascista, che finì per assumere quel ruolo di forza che avrebbe ristabilito l’ordine a cui il paese finì per consegnarsi.

Forse qualche riflessione su questa storia, qui davvero riassunta in modo troppo schematico, aiuterebbe le classi dirigenti attuali, non solo quelle politiche,  a chiedersi se non rischiamo di nuovo di cacciarci in una situazione ingovernabile. L’emergenza non finirà in fretta e in un mondo che uscirà cambiato nei suoi equilibri da questa pandemia la rincorsa ai mantra a Cinque Stelle, alle rodomontate di Salvini e del leghismo, alle elucubrazioni sui “campi larghi” della sinistra, alle varie demagogie e ai vari sovranismi, non ci porterà bene.

Eppure è lì che sono impantanati i partiti e le classi dirigenti del paese non riescono per il momento a costringerli ad uscire dalle loro cieche volontà di chiudere il duello che hanno aperto fra loro negli ultimi due anni. Con il rischio, come insegna quel che successe cent’anni fa, che ad approfittare della situazione siano forze più demagogiche e cieche di quelle attuali, ma che poterbbero presentarsi con la ingannevole divisa di chi ha capito che si apre un nuovo mondo.