Odissea giallorosa
Nato per dare al Paese e agli osservatori internazionali l'immagine di una discontinuità col precedente Esecutivo, in nome dei conti pubblici in ordine, di una linea non più euroscettica e di una volontà di stabilità (con l'obiettivo di durare fino al 2022), depotenziando frattanto la Lega di Salvini, il secondo governo Conte ha mostrato presto i suoi limiti. Il Carroccio sta tornando sui livelli di consenso delle europee del 26 maggio scorso; sul Mes l'Italia torna a stare con un piede in Europa e uno fuori; il governo traballa, dando l'impressione di non avere più di uno o due mesi di percorso prima delle dimissioni. In pratica, a parte bloccare l'aumento dell'Iva, non è stato fatto altro di significativo. Persino la diminuzione del numero dei parlamentari, voluta con forza dal M5s, è stata approvata con i voti di un riluttante Pd ma ora potrebbe essere rinviata al 2025 (cioè, per i tempi della politica, alle calende greche) in caso di repentino scioglimento delle Camere. L'ipotesi di un accorpamento fra le nuove elezioni nazionali e le regionali (previste nel periodo fra la metà di aprile e la metà di giugno) non è più remota. Per farci votare il 18 aprile (data fatidica, peraltro, perché ricorda la vittoria della Dc nel 1948 e i referendum elettorali del 1993) Mattarella dovrebbe sciogliere le Camere intorno al 10 febbraio, cioè due settimane dopo il voto regionale in Emilia-Romagna e Calabria. In caso di vittoria leghista nella roccaforte rossa, questo scenario diverrebbe molto verosimile. Resta da domandarsi perché siamo arrivati a questo punto di incertezza, di sfaldamento. Forse, però, la risposta è nel "concepimento" di questo governo: nato non per amore (cioè per una precisa scelta politica strategica) ma per occasione necessitata, in fretta e furia, nel pieno di un'estate durante la quale è accaduto ciò che sembrava impensabile (Renzi fautore dell'Esecutivo con i Cinquestelle; Zingaretti disposto a non andare ad elezioni anticipate; Grillo pronto a far "cambiare cavallo" a un Di Maio disarcionato da Salvini; Conte prima perno insostituibile dell'alleanza, poi guardato con sospetto dal leader pentastellato che lo aveva imposto al Pd, nonostante la richiesta di "discontinuità"). Davvero si poteva credere che - come affermava Renzi - prima di tutto c'erano la necessità di bloccare l'aumento dell'Iva e impedire a Salvini di vincere le elezioni? Certo, quei due punti erano qualificanti, ma se il primo era al massimo sufficiente per giustificare un governo balneare, per il secondo ci sarebbe voluto un progetto di lungo respiro, sostenuto da forze coese e determinate a procedere insieme. Invece, subito dopo la nascita del governo, ognuno è andato per proprio conto: Renzi, uscito - come previsto da tutti - dal partito del quale era stato leader; Di Maio, che - temendo di perdere potere nel Movimento - ha progressivamente preso le distanze da un Conte diventato finalmente un vero e proprio "primus inter pares" (non più il notaio del contratto gialloverde). Anche l'effimera "foto di Narni", con gli esponenti di Pd e M5S uniti nel sostegno alla coalizione poi sconfitta pesantemente alle regionali umbre, è la dimostrazione di come si sia voluto costruire una casa comune (il Conte-bis) con l'ambizione di durare ben tre anni (un record, in Italia) con materiali (intese politiche) di scarto e fondamenta non più solide delle facciate dei villaggi dei film western di un tempo. Il Pd, in questa vicenda, ha avuto un vantaggio immediato (il ritorno al governo, il commissario europeo, una nuova centralità, persino - forse - la simpatia del presidente del Consiglio Conte) ma sta pagando un prezzo quasi più alto di quello della partecipazione all'Esecutivo guidato da Monti nel 2011-2012. Oggi come allora, è il senso di responsabilità la trappola nella quale il Pd finisce regolarmente, quando gli altri la evitano. Una doppia trappola, accompagnata dalla necessità, per Zingaretti, di dar vita al Conte-bis per non trovarsi in minoranza nei gruppi parlamentari del partito e per non essere accusato dai Cinquestelle e dai renziani di aver consegnato "il potere" a Salvini (il quale lo avrà lo stesso, probabilmente, proprio grazie all'implosione del M5s, alle incertezze di Di Maio, al caos sul Mes, alla rissa fra i partiti sulla legge di bilancio). Stretto fra il calo dei consensi e la necessità di recuperare quelli persi a destra, il leader pentastellato va sempre più verso il suo ex alleato leghista, il quale - dal canto suo - aspetta solo che il M5S affondi il governo non per ridar vita ad un Esecutivo (magari guidato dallo stesso Di Maio) ma per correre alle urne con la Meloni e schiacciare la concorrenza con una vittoria a valanga nei collegi uninominali. Frattanto, non si comprende bene se nei Cinquestelle la linea "governista" di Grillo possa prevalere su quella "nostalgica" di Di Maio (al quale la "discontinuità" col governo gialloverde non è mai piaciuta). Fra i problemi del Paese (l'Ilva fra tutti) e un governo figlio di nessuno (al massimo, solo di Pd e Leu, volendo esser generosi), lo spread riparte e la fiducia nell'Italia si sfarina. È possibile che questo porti ad una rapida evoluzione della situazione, ma un dato è certo: da un lato, non si può non avvertire la responsabilità (superiore rispetto all'interesse di leader e partiti) che deriva dall'onore e dall'onere di governare il Paese; da un altro lato, non è politicamente lecito pensare di vincere le elezioni a tutti i costi per poi governare sulle macerie del Paese.
di Luca Tentoni
di Francesco Cannatà *
di Francesco Provinciali *