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27 marzo 2024
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Nelle spire di un passato che non passa

Paolo Pombeni - 19.01.2022
Breda Capi senza Stato

La politica italiana è prigioniera del suo passato. Tutti sono disposti a sottoscrivere l’affermazione guardando alla rinascita di Berlusconi che si prende il centro della scena e rimette in pista l’eterna diatriba tra pro e contro il Cavaliere. Che lui sia una presenza ingombrante non c’è dubbio. Che susciti più di un interrogativo inquietante anche.

Ci vuole naturalmente una certa disinvoltura a considerarlo “adatto” per un ruolo come la presidenza della repubblica. Non è tanto questione di suoi guai giudiziari, che certo qualche problema lo pongono, ma alla fine potrebbero anche, sia pure a fatica, essere messi fra parentesi. Le due riserve maggiori riguardano come ha svolto il suo mandato al governo. Basta leggersi quello che ha registrato Marzio Breda nel suo libro Capi senza Stato (Marsilio 2022), a proposito del suo rapporto con Ciampi per farsi venire molti dubbi sulle sue qualità di “statista” (e Breda non è giornalista di una testata pregiudizialmente di parte, né Ciampi era un esponente della “sinistra” che partiva dalla demonizzazione dell’uomo di Arcore). Aggiungiamoci però, ed è la più pesante delle palle al piede che si trascina Berlusconi, che si tratta di un uomo di grande ricchezza, con interessi economici personali notevolissimi, soprattutto nel campo della comunicazione.

Questa figura non corrisponde alla normalità dei ruoli di vertice, anzi di garanzia, nei sistemi costituzionali occidentali. Quando si scivola su questi terreni le cose non vanno bene: si veda la vicenda di Trump negli USA, senza con questo stabilire una stretta correlazione con la vicenda di Berlusconi, sebbene qualche analogia si possa trovare, soprattutto in termini di sopravvalutazione del proprio ego.

Però crediamo non si comprenda appieno la nostra situazione se non si tiene conto di un vizio pesante della nostra storia politica: l’occupazione del potere e la spartizione delle sue spoglie da parte delle forze politiche di volta in volta dominanti. Non è questione che riguardi una sola parte politica, anche se spesso ognuna tende a dire che si tratta di un peccato solo dell’avversario. In realtà la spartizione dei posti di comando è stata una prassi a tutto vantaggio del vincitore del momento e con compensazioni abbastanza consistenti agli altri quando vigeva un certo “consociativismo”, ridotte poi al minimo possibile quando si è affermata una logica “maggioritaria”.

Questo è quanto si verifica più o meno in tutte le articolazioni del nostro sistema, dal governo centrale, alle regioni, ai comuni e poi giù giù in tutte le sedi in cui sia possibile farlo. Ovviamente quelli più saldi nel potere possono magari essere un poco più generosi in alcuni casi, mentre quelli che ci arrivano dopo lunghe esclusioni hanno una fame atavica e fanno troppo spesso strame di ogni decenza. La sostanza è che la logica della nostra politica assomiglia di frequente a quella del bullismo (per non scendere a paragoni peggiori): bisogna mandare messaggi a destra e a manca di un esercizio del potere che dimostra la sua forza nel poter prescindere dal rispetto di qualsiasi regola.

L’arroccarsi della destra sulla candidatura di Berlusconi risponde agli istinti politici che dominano da troppo tempo la politica italiana (da ben prima della seconda repubblica): la sua frustrazione nel non essere mai riuscita a divenire un trend dominante fra le classi dirigenti del paese unita al risentimento non infondato per un contrasto molto disinvolto da parte di molte corporazioni dei poteri diffusi spinge la destra a cercare sempre non di accreditarsi come forza di rappresentanza il più possibile generale, ma come clan che può finalmente piazzare “i suoi” come facevano le altre forze a loro tempo dominanti.

La sinistra non è capace di riconoscere che ha le sue colpe, neppure piccole, nell’aver favorito il consolidarsi di questa politica di occupazione del potere e di conseguenza non sa come contrastare efficacemente i vari bullismi del fronte avversario.

Eppure proprio l’occasione del confronto sulla scelta dell’inquilino del Quirinale potrebbe essere l’occasione migliore per voltare pagina. Qui infatti si tratta di scegliere non solo l’arbitro garante dell’ordinato svolgimento della nostra vita costituzionale, ma soprattutto colui che deve mostrare alla nazione che essa non è il campo di confronto degli animal spirits della faziosità politica, ma il quadro entro cui ogni componente lavora per darle gli strumenti, anche in termini di classe dirigente ai vari livelli, più capaci di farla progredire avendo l’orizzonte del bene comune.

Sfruttare la delicatezza di questo momento per iniziare almeno a rivedere il nostro modo di “fare politica” è una occasione da non perdere. Se la politica fosse capace di farlo riguadagnerebbe credibilità di fronte ai cittadini che si mostrano sempre meno coinvolti da essa (basti pensare che nelle suppletive a Roma ha votato l’11% degli aventi diritto!!). E’ vero che andrà fatto a tutti i livelli, ma iniziare dal punto più alto della nostra sfera pubblica sarebbe davvero un gran bel segnale.