Né spallata, né stabilizzazione
E’ sicuro che la spallata preconizzata da Salvini non c’è stata: è la seconda o la terza volta che il Capitano si fa travolgere dal suo entusiasmo. Se ne deve dedurre che una volta di più registriamo una stabilizzazione del sistema, che Conte e il suo governo hanno davanti mesi tranquilli? E’ possibile, ma non ne saremmo così certi.
I risultati della tornata elettorale del 20-21 settembre non si prestano ad una lettura in bianco e nero: tizio ha vinto, caio ha perso. Sono piuttosto un ennesimo passo in direzione della ridefinizione del nostro sistema politico e non sappiamo ancora dove realmente andremo a finire.
Partiamo pure dai risultati del referendum costituzionale: il sostanziale 70 a 30 per il sì non segna esattamente il trionfo dei Cinque Stelle. E’ semplicemente la registrazione di un certo distacco del paese dalla questione che riguarda i meccanismi di rappresentanza. C’è una larga sfiducia che il parlamento sia un baluardo della volontà di partecipazione dei cittadini, tanto è vero che quasi la metà degli elettori non si è neppure presa la briga di andare a votare e che la riduzione dei parlamentari è stata approvata sull’onda della tesi che un bel taglio nel numero dei parlamentari non avrebbe cambiato nulla (ed in effetti così sarà).
Il no ha raggiunto un consenso notevole, perché il 30% non è poca cosa, ma soprattutto è venuto in grande percentuale dalla parte più informata dell’elettorato, quella che non ha voluto piegarsi alla demagogia dei Cinque Stelle. Si disegna così un movimento nel corpo elettorale di cui si dovrà tenere conto, perché non solo prima o poi si tornerà a votare a livello nazionale, ma sicuramente la prossima primavera ci sarà un’altra importante tornata di amministrative.
Nessun partito è risultato veramente pacificato dalla prova elettorale. I Cinque Stelle escono a pezzi dalla prova delle regionali e amministrative, avendo perduto la loro rendita di posizione di grande collettore del rifiuto verso la politica tradizionale. Oggi la loro capacità di condizionamento all’interno del governo è ridimensionata, perché se si dovesse andare ad elezioni anticipate essi ne uscirebbero male e al contempo la destra non è più quella falange che vince sempre. Significa che i partner della coalizione governativa possono avere meno remore a porre in termini ultimativi alcune questioni, tipo MES tanto per citarne una.
Si obietta che però, proprio per la vittoria dei sì, le elezioni anticipate sono impossibili, perché si devono ridisegnare i collegi. A parte che anche su questo fronte qualche scappatoia pare che esista (la Corte Costituzionale ha stabilito che mai si può stare un periodo senza che ci sia la possibilità di ricorrere alle urne), il problema andrebbe posto da un altro punto di vista. Con una crisi di governo non è neppure detto che si dovrebbe ricorrere allo scioglimento della legislatura: con i parlamentari poco vogliosi di affrontare una prova con a disposizione 315 posti in meno, ci sono discrete possibilità che l’italica inventiva trovi soluzioni in governi ponte, di emergenza, di solidarietà e quant’altro.
Perché si potesse scommettere con certezza su una tenuta del quadro politico odierno, bisognerebbe immaginare che nei partiti non ci fossero ricadute per i risultati elettorali. Ora si sa benissimo che i Cinque Stelle devono affrontare una specie di congresso chiamato Stati Generali, un evento che sarà una resa dei conti all’interno dei loro gruppi dirigenti. Renzi e Italia Viva devono porsi il problema di una prova elettorale che li ha visti praticamente dappertutto al di sotto della mitica soglia del 5% prevista come sbarramento dalla prospettata riforma elettorale. Anche se quella soglia venisse abbassata, non si può dire che IV abbia davanti a sé prospettive luminose.
Il PD ha toccato con mano che le sue fortune non dipendono affatto da una alleanza con M5S: può farcela benissimo da solo, mischiando l’appello alla diga contro le destre (che ancora funziona) con il fatto di essere il solo partito che presenta capacità di governo avendo la forza elettorale per renderle efficaci. Questo muoverà qualcosa al suo interno, quantomeno nella direzione di renderlo più pugnace nella sua azione all’interno dell’esecutivo guidato da Conte.
In parallelo si assiste all’indebolimento della leadership di Salvini sul centrodestra. Berlusconi sicuramente ha capito che quella compagnia non gli fa bene, ma all’interno stesso della Lega crescono le diffidenze verso una politica-spettacolo che porta pochi risultati per gli ambienti sociali ed economici che hanno scommesso su quel partito (tutti al Nord, perché al Sud la Lega non sfonda).
Soprattutto c’è una novità di cui sarà bene tenere molto conto: la crescita notevole del peso dei governi regionali. Chi sono i veri vincitori di queste elezioni? Quattro “governatori”, due di destra, Zaia e Toti, due di sinistra, De Luca e Emiliano, che sono stati confermati, in qualche caso trionfalmente. Anche in Toscana, in realtà ha vinto il rappresentante della “continuità di governo” (fanno eccezione solo le Marche). Sono la testimonianza di quel che si stava già vedendo durante l’emergenza Covid: le regioni sono centri di potere in grado di porsi in dialettica col governo centrale, ed i governatori su questo riescono a far fronte comune anche al di là di diverse appartenenze partitiche.
Con una partita complicata, ma molto attraente come la gestione dei molti miliardi europei in arrivo, il confronto fra regioni e governo diventerà un tema centrale e qui per esempio M5S è una presenza marginale.
Insomma se di parlare di una “spallata” non è palesemente il caso, anche buttarsi a magnificare la resistenza e la tranquilla futura navigazione del governo Conte rischia di essere un azzardo. I sistemi politici raramente cambiamo per terremoti rivoluzionari, più spesso si modificano passo dopo passo attraverso prove successive. Crediamo sia il caso del nostro sistema e dunque prestiamo molta attenzione a quanto accadrà nei prossimi mesi.
di Paolo Pombeni
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