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18 maggio 2024
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Meno iscritti al PD: un dibattito sul nulla

Paolo Pombeni - 07.10.2014
Manifestazione Pd Roma

I dibattiti fondati sul nulla non sono una rarità nella politica italiana, ma quello sul calo di iscritti al PD lo è in modo peculiare. Innanzitutto perché è uno scandalo (parola inutilmente grossa) su un fenomeno conosciuto da almeno un ventennio in tutto il sistema politico occidentale: la contrazione della “militanza di partito” interessa infatti tutti i paesi che fra Otto e Novecento hanno visto il fiorire e l’espandersi di quella che si definisce la forma-partito moderna.

Attribuire la causa di questo fenomeno all’avvento di Renzi alla guida del PD è scambiare la conseguenza con l’origine. Non solo perché, come è ovvio, il tesseramento e il reclutamento non sono nelle mani del segretario, ma proprio della base e dei quadri intermedi a livello locale (per lo più rimasti quelli di prima, convertiti o meno che siano), ma perché il fenomeno parte da più lontano e si sarebbe tranquillamente verificato anche con la permanenza ai vertici dei vecchi dirigenti.

Un tempo la sociologia politica, Maurice Duverger imperante, distingueva in tre livelli i gradi di adesione ad un partito: si andava dall’elettore, al “simpatizzante” (cioè all’elettore che rendeva pubblica in vari modi la sua scelta nelle urne), al “militante” (che era colui che, per così dire, prestava servizio permanente effettivo nella struttura di partito). Oggi andrebbe riconosciuto che le ragioni per essere “militanti” sono molto diminuite almeno a livello di massa.

Lasciamo da parte le nostalgie romantiche di quelli che sostengono che i militanti potevano incidere nelle scelte del partito grazie alla loro partecipazione attiva ai sistemi elettoral-parlamentari interni. Quella era la teoria, ma la pratica era altra cosa e la guida di quelle masse era nelle mani di gruppi ristretti di professionisti (già all’inizio del Novecento Michels aveva parlato a questo proposito per i partiti di “ferrea legge delle oligarchie”). In pratica la scelta di “tesserarsi” era un mix di autodichiarazione di appartenenza socio-culturale, di ricerca di inserirsi in un sistema di tutela politica a fronte di società in cui chi non la aveva poteva essere svantaggiato, di adesione a ciò che in molti era sentito come un “dovere” di inclusione nel meccanismo della democrazia.

Ora andrebbe ammesso realisticamente che tutte e tre le componenti di questo mix sono in larga parte venute meno. I partiti oggi, PD compreso, non sono più espressioni di universi sub culturali chiusi (ci si nasce dentro in un certo senso, come si nasce in un certo luogo e in una certa famiglia), dunque iscrivendosi non si dichiara la fedeltà ad appartenenze che non esistono più. La capacità dei partiti di essere canali “dedicati” per difesa e promozione dei diritti degli iscritti è quantomeno modesta: un po’ perché il sistema pubblico ed economico è divenuto meno permeabile alle “segnalazioni” (corruzione a parte, ma quello è un altro paio di maniche), un po’ perché si sono radicalmente ridotti i poteri distributivi dei partiti (la lottizzazione c’è ancora, ma riguarda fasce molto ristrette).  I modi per sentirsi “attivi” nella sfera pubblica si sono moltiplicati e anzi quelli nuovi consentono più spazi di azione che non quelli congelati nei partiti. In più la crescita costante dell’astensionismo mostra che si va affermando una disaffezione dalla partecipazione attiva alla vita “democratica” così come tradizionalmente intesa (il voto come dovere civico).

Infine teniamo presente un fatto che riguarda il PD in specifico: non è vero che esso stia divenendo un partito “di elettori”, ma piuttosto di “simpatizzanti”. Che cosa sono infatti le “primarie” se non un sistema in cui una parte dei potenziali elettori rendono pubblico e visibile il loro sostegno al partito entrando nel meccanismo decisionale di scelta delle candidature? Lasciamo perdere le manipolazioni e i pasticci che gruppi dirigenti non molto illuminati mettono in atto per smontarne le potenzialità, ma di questo potrebbe trattarsi.

Last, but not least, come si usa dire, perché ci dovrebbe essere attrattiva ad iscriversi ad un partito come il PD che non riesce a dimostrare alcuna disciplina parlamentare, ma non solo? Vogliamo dimenticare che ha impallinato Marini e Prodi per le elezioni al Quirinale con killeraggio di franchi tiratori, non riesce a votare compatto i giudici della Corte Costituzionale, ha parlamentari che dichiarano ad ogni occasione che loro non stanno alle decisioni prese dalla maggioranza degli organi di partito?

Il problema del PD dunque non è rimpiangere il successo di tesserati del “vecchio” PCI, ma riuscire ad inventarsi un nuovo modo serio di mantenere quelle funzioni di canalizzazione delle opinioni politiche e di elaborazione di progetti per risolvere i problemi del paese che sono state tipiche della classica forma partito. Certo è sbagliato illudersi che per questo sia abbastanza avere un leader abile a raccogliere consenso (anche se questa è comunque una risorsa) con magari un po’ di “agitazione elettorale” nei momenti topici. Ci vuole capacità di far convergere forze e intelligenze attorno a delle prospettive. Questa è la carenza del momento (e di qui le critiche a Renzi di forze responsabili che non lo contrastano, ma che lo vorrebbero veder fare un passo avanti), ma non è certo un incremento del numero dei tesserati che potrà colmarla.