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20 aprile 2024
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“Il sole sorge come al solito”: perché Pechino non scenderà a compromessi con la Umbrella Revolution di Hong Kong

Aurelio Insisa * - 07.10.2014
Umbrella Revolution

Il primo ottobre di quest’anno, durante il sessantacinquesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, il direttore dell’Ufficio per gli Affari di Hong Kong, Zhang Xiaoming, ha commentato le proteste di massa che stanno scuotendo l’ex colonia britannica nelle ultime due settimane con un freddo “il sole sorge come al solito.” Sebbene si tratti di un ovvio tentativo di minimizzare la portata della cosiddetta “Umbrella Revolution” che ha paralizzato la città per quasi due settmane, tale commento è anche il segnale della volontà di Pechino di non deviare dall’agenda politica in serbo per Hong Kong sin dal trasferimento di sovranità dal Regno Unito nel 1997.

 

1984-2014: Le promesse non mantenute


Il modus vivendi tra Pechino e Hong Kong, definito nella costituzione cinese come “una Cina, due sistemi,” ha subito negli ultimi diciassette anni un lungo processo di rinegoziazione che lo ha reso progressivamente più distante dallo spirito della Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica del 1984. Il documento firmato da Margaret Thatcher e Zhao Ziyang avrebbe dovuto infatti assicurare a Hong Kong la libertà di sviluppare senza intromissioni esterne le proprie istituzioni democratiche, tra le quali ovviamente una riforma elettorale che garantisse il suffragio universale. Pechino è stata tuttavia capace di contrastare le aspirazione democratiche hongkonghesi sin dall’inizio dell’handover tramite lo stesso strumento che avrebbe dovuto proteggerle: la Basic Law, ovvero la “costituzione” della ex colonia britannica. Il linguaggio vago e ambiguo del documento, in cui il governo cinese ebbe un ruolo centrale in fase di stesura, ha permesso infatti a Pechino un ampio spazio di manovra nella sua interpretazione a proprio favore.

Sebbene gli articoli 45 e 68 della Basic Law non escludano a priori la possibilità di ottenere un suffragio universale, Pechino ha infatti ripetutamente bloccato, nel 2004 e poi nel 2008, le richieste locali affermando che lo sviluppo delle riforme elettorali debba essere graduale. Dopo anni di stallo, la delibera del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare del 31 agosto di quest’anno ha infine concesso il suffragio universale per le elezioni amministrative del 2016 e per quella del Capo dell’Esecutivo nel 2017. Il requisito preliminare che i candidati debbano “amare la Cina e amare Hong Kong,” ovvero il diritto di veto del governo centrale su qualunque possibile candidato, ha tuttavia confermato che Pechino non ha intenzione di modificare sostanzialmente la sua agenda a lungo termine.

 

2014-2047: Il futuro di Hong Kong e quello di Pechino


Alla luce di ciò si può comprendere sia la natura delle richieste dei manifestanti che la risposta di Pechino. Per quanto spesso tacciati di idealismo, le richieste del fronte studentesco e del movimento Occupy Central, i due principali attori della protesta, sono in realtà ben precise: le immediate dimissioni del Capo dell’Esecutivo Leung Chun-ying, eletto nel 2012 da un collegio di grandi elettori e inviso dalla popolazione locale, e la stesura di una nuova legge elettorale che assicuri il suffragio universale senza restrizioni. L’orizzonte temporale di questo scontro è ovviamente il 2046, l’anno in cui si concluderà l’attuale assetto delle relazioni tra la Cina e l’ex colonia britannica. Una Hong Kong con istituzioni pienamente democratiche all’opera da almeno tre decenni risulterebbe infatti impossibile da reinserire all’interno della Repubblica Popolare. All’opposto, svuotare gradualmente di significato gli accordi della Dichiarazione Congiunta e le istituzioni indipendenti della città, permetterebbe a Pechino di arrivare alla fatidica data del 2046 in una posizione di assoluta forza.

La strategia a lungo termine di Pechino tuttavia, non prende esclusivamente in considerazione Hong Kong, ma è anche cosciente delle implicazioni delle proteste a livello domestico. Sebbene gli scenari di “contagio democratico” affascinino gli osservatori occidentali, il rischio è probabilmente inesistente al momento, considerando che la gran parte dell’opinione pubblica cinese ritiene queste proteste come una questione “interna” di Hong Kong. Ciò che Pechino realmente teme invece è il possibile diffondersi di un messaggio ben preciso: che le proteste di massa possano portare in qualche modo ad una rinegoziazione dei rapporti di forza tra stato e cittadini, soprattutto a livello provinciale, dove decenni di corruzione e malgoverno hanno minato la fiducia tra cittadini e classi politiche locali. Soltanto il diffondersi di manifestazioni di questo tipo porrebbero realmente in pericolo l’esistenza del regime in un futuro prossimo.

Al momento della stesura di questo articolo, è impossibile prevedere l’esito delle proteste, sebbene non siano da escludere in futuro né le dimissioni dell’ormai screditato Capo dell’Esecutivo Leung Chun-ying (così come accadde a Tung Chee-hwa nel 2004 per “motivi di salute) né, come estrema ratio, l’uso della forza da parte della polizia locale per disperdere i manifestanti. L’unica certezza che si può avere da queste proteste è che Pechino, e il suo proxy a Hong Kong Leung Chun-ying, non scenderanno a compromessi sul suffragio elettorale, almeno fino a quando saranno validi gli attuali rapporti di forza in campo. Se i giovani studenti che hanno animato la Umbrella Revolution hanno realmente intenzione contrastare i piani degli occupanti di Zhongnanhai, dovranno probabilmente prepararsi a continuare la loro lotta ben oltre il termine dei loro studi, ma soprattutto, dovranno prendere coscienza che un cambiamento nel futuro di Hong Kong passa necessariamente da un copione diverso da quello scritto dalla leadership del Patito Comunista per il futuro dell’intera Cina.

 

 

 

 

* Dottorando presso il Dipartimento di Storia della University of Hong Kong