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Manca davvero poco all’alba?

Paolo Pombeni - 22.01.2020
Elezioni regionali 2020

Tutti aspettano l’alba del 27 gennaio quando si conosceranno finalmente i responsi delle urne di Emilia Romagna e Calabria. La si vive come l’alba di un nuovo giorno, discutendo solo se lo sarà per la destra o per la sinistra. Se si invita a considerare con un po’ di freddezza quel che potranno dirci quei risultati, si passa o per furbini che non vogliono rischiare smentite o per cinici i quali pensano che comunque vada nulla cambia mai.

In realtà la situazione è davvero complicata. Da un lato questa lunga e defatigante campagna elettorale che si trascina da agosto ha mutato in maniera irreversibile il quadro politico italiano. Dall’altro ha finito per mettere in ombra i grandi problemi che il paese ha davanti, diffondendo l’illusione che prima si dovesse stabilire chi poteva detenere l’egemonia della politica italiana rinviando a dopo i conti con le nostre difficoltà.

Il mutamento del quadro politico ha visto l’affermarsi di una demagogia di destra che sembra avere il sostegno del 40% circa dell’elettorato. E’ un fatto nuovo. Berlusconi, con tutti i suoi numerosi difetti, non era espressione di questo tipo di cultura, né lo era Gianfranco Fini. Il loro tentativo di costruire un partito saldamente conservatore è miseramente fallito. Certo per debolezze dei due personaggi e della corte di cui si erano circondati e per non aver saputo contenere gli appetiti circa l’occupazione del potere che è la triste eredità che ci portiamo dietro dai partiti della prima repubblica. Per essere esatti, da quelli della seconda fase, iniziata a fine anni Sessanta del secolo scorso, perché l’occupazione del potere negli anni precedenti, che pure esisteva, era moderata dall’imperativo di mettere nei posti di rilievo personale di buona qualità, altrimenti non si sarebbe retto l’urto della concorrenza fra i partiti.

Dal risultato delle elezioni del marzo 2018 la destra ha optato decisamente per la demagogia e ha puntato a raccogliere il consenso facendo a gara a trovare capri espiatori da additare alle folle per convincerle che in fondo la soluzione dei problemi era  a portata di mano. Questa tecnica ha conosciuto un crescendo continuo, perché il successo che ha incontrato invogliava ad investire sempre di più su quei registri comunicativi. Salvini è divenuto il dominus di questa nuova apoteosi della comunicazione.

A fronte di questo l’altro campo non ha saputo veramente reagire. Parliamo di “altro campo” e non semplicemente di sinistra perché bisogna tenere conto della novità dei Cinque Stelle che alla sinistra non appartengono. Essi sono una variante, e per certi versi una anticipazione della svolta demagogica della destra, solo che rappresentavano una demagogia autoreferenziale, anarcoide, capace di tenere insieme, pur solo a livello di slogan, tutto e il contrario di tutto. Hanno avuto enorme successo, ma sono crollati nel momento in cui hanno dovuto scendere sul terreno del governo. Non sarebbe stato il primo caso di movimento di quel tipo “maturato” poi con la frequentazione delle stanze del potere, ma così non è stato, perché sono privi degli strumenti, umani e intellettuali, per gestire il difficile passaggio. L’impressione oggi è che si sia trattato di una meteora, anche se può darsi ci metterà un poco di tempo per dissolversi.

La sinistra per adesso è incapace di riguadagnare una vera leadership culturale. Il suo pensiero è quello effimero dei media e dei talk show: non ha più il coraggio di ritrovare una autentica vocazione riformista, perché non si sente abbastanza credibile per convincere al cammino graduale necessario per questa operazione; non può avere alcuna vocazione rivoluzionaria perché le manca un pensiero all’altezza, ma soprattutto perché si rende conto che operando in Italia non è nel contesto giusto per produrre una svolta storica.

In queste condizioni nessuno sembra davvero in grado di affrontare il ripensamento di un sistema, tanto sociale quanto culturale e politico, che, come il nostro, viene continuamente dato in crisi senza che si abbia idea su come cominciare un lavoro di riorganizzazione.

Prendiamo il problema storico e oggi sempre più drammatico del divario Nord-Sud. Per metterci mano sarebbe necessario investire pesantemente nel Mezzogiorno, ma questo significa togliere risorse al Settentrione (la coperta è corta) e subito si obietta che così si danneggiano le aree avanzate del paese senza far fiorire le altre che sono affette da una cronica corruzione, debolezza di classi dirigenti, per non dire della criminalità. Il dramma è che il ragionamento è esatto, solo che si tratta del classico gatto che si morde la coda senza sapere che la coda è sua.

Perché se non si fa uscire il Sud dalla sua situazione, il Nord non avrà un mercato di espansione e di investimento e finirà per diventare una appendice subordinata di quei paesi che stanno ancora più a Nord.

E’ solo l’esempio di uno dei grandi problemi che l’Italia ha davanti ed a cui non possono certo rispondere le urne delle elezioni regionali che campeggeranno in tutta la prima metà del 2020. Né purtroppo potrà rispondere un governo che non ha fiato, legato com’è agli interessi immediati dei partiti che lo sostengono, i quali partiti devono pensare a come sopravvivere nel grande scontro che ha innescato il cambiamento del quadro politico.

Per questo il 27 gennaio non vedremo l’alba di alcun nuovo giorno, ma il tramonto, triste, di un sistema politico incapace di uscire dal proprio autismo.