Macron parte seconda: pronti al decollo? O molto rumore per nulla?
In un commento apparso a fine aprile su queste colonne (http://www.mentepolitica.it/articolo/tutti-pazzi-per-macron/869 ), ci si chiedeva come sarebbe andata a finire tra il “presidente indolente” e il “ministro insolente”, cioè tra François Hollande e il suo ministro dell’economia Emmanuel Macron. Ebbene a quattro mesi e mezzo circa di distanza una risposta a quel quesito, seppur provvisoria, la si può dare. Macron ha preso una decisione e ha consegnato nelle mani del presidente le sue dimissioni. La tensione tra i due era oramai divenuta insostenibile e il meeting pubblico del suo nuovo movimento politico En Marche! a metà luglio è stato davvero l’ultima provocazione. Solo i tragici eventi di Nizza hanno poi ritardato un divorzio già certo prima della pausa estiva.
Dunque anche Macron abbandona la “zattera dell’Eliseo”. Ancora una volta un ministro dell’Economia, dopo le dimissioni a agosto 2014 di Arnaud Montebourg, che lascia la squadra di quello che assomiglia sempre più ad un “naufrago alla deriva”. In realtà le dimissioni di Macron sono piuttosto differenti, sia perché il giovane ex banchiere esiste politicamente solo grazie ad Hollande, sia perché in realtà questa uscita è stata soft, senza grandi proclami e senza particolare acrimonia. Le prime due domande da porsi sono proprio queste: perché ha scelto di andarsene proprio ora e perché ha optato per un’uscita di scena “morbida”?
Le risposte alla prima domanda sono piuttosto semplici. Dopo il pasticcio sul provvedimento riguardante la revoca della nazionalità agli accusati per terrorismo, il caos della legge sul lavoro e infine il tragico atto terroristico di Nizza, la presidenza Hollande è entrata in uno stato vegetativo che, ad oggi (ma in politica si può essere sempre smentiti), solo un miracolo potrebbe interrompere. Per queste ragioni non pochi nel PS pensano alle elezioni del 2017 come ad un appuntamento senza speranze, quasi da dimenticare, per cominciare a lavorare al voto presidenziale del 2022. In una situazione di questo genere, rimanere legati all’attuale presidente significa compromettersi e tardare l’avvio del percorso di necessaria ricostruzione programmatica ed ideologica.
A questo punto bisogna cercare di rispondere all’altra questione: perché un’uscita morbida e non di denuncia clamorosa? La prima motivazione è intuitiva: proprio per la pessima situazione della gauche, Macron non è convinto che una sua candidatura nel 2017 sia sensata o comunque abbia possibilità perlomeno di passare il primo turno. Per questo è più opportuno avere un approccio attendista, di più ampio respiro. Per questo si può comprendere la scelta di attaccare il sistema politico-istituzionale nel suo complesso, di definirlo bloccato e centrato su un clivage destra-sinistra oramai superato. In molti stanno giudicando tale approccio come scarsamente originale. L’idea di non gettarsi ancora nella mischia e perlomeno attendere la decisione di Hollande (prevista per dicembre) e l’esito delle primarie a destra è, ad ogni modo, sintomo di un corretto pragmatismo. Vi è poi un’ultima ragione da non trascurare. Andarsene sbattendo la porta e accusando di immobilismo ed inadeguatezza Hollande e le sue politiche significherebbe implicitamente fare un bilancio negativo anche del proprio operato. E questo sia per i primi due anni, quando Macron ha svolto il delicato ruolo di segretario generale all’Eliseo con la gestione dei dossier macroeconomici. Sia per il periodo trascorso all’Economia. Nella prima parte di mandato accanto a Hollande, egli è stato il regista dei principali provvedimenti economici (patto di competitività, accordo interprofessionale e patto di responsabilità). Una volta poi divenuto ministro ha legato il suo nome ad uno dei provvedimenti più discussi del quinquennato Hollande, quella Loi Macron che ha costretto il governo Valls ad utilizzare tre volte il 49.3 per evitare la sfiducia. Insomma la scelta di demolire il “palazzo Hollande” avrebbe imposto, ed eventualmente imporrà, grande attenzione alla caduta di grossi calcinacci.
Ad ogni modo al di là di queste speculazioni, un dato è certo: ora Macron ha ritrovato la sua “liberté” ed è lecito chiedersi se egli possa tramutarsi in una risorsa per il PS e più in generale per la gauche francese. Sarebbe da miopi non sottolineare gli atouts che Macron possiede. Cinque anni fa era un trentatreenne sconosciuto da un punto di vista politico; oggi ha un’immagine mediatica molto positiva (secondo solo ad Alain Juppé quanto a fiducia dei suoi concittadini) e, anche in un governo tra i meno popolari della storia della V Repubblica, si pone al terzo posto, dietro soltanto ai due ministri più coinvolti nella lotta al terrorismo, Bernard Cazeneuve (Interni) e Jean-Yves Le Drian (Difesa). Anche tralasciando la giovane età e l’immagine di innovatore, egli può contare su una sorta di doppio ruolo, allo stesso tempo outsider ed insider. Presentarsi cioè come colui che non è stato ancora corrotto dal sistema (in fondo non è mai stato eletto e può vantare nomine solo per merito e competenza), ma che allo stesso tempo ha già vissuto per quattro anni dall’interno le logiche del potere e di funzionamento delle istituzioni.
Bisogna però dire che qui si fermano gli atouts ed inizia invece una serie piuttosto lunga di pietre d’inciampo per il giovane ex ministro. Prima di tutto candidarsi ad una elezione presidenziale in Francia è una cosa piuttosto seria, che necessita ad esempio di almeno 500 firme di eletti e al momento la presa di Macron (che eletto non è mai stato nemmeno in un consiglio comunale) da questo punto di vista è scarsa. Gli ottimisti parlano di una ventina di deputati socialisti pronti a sostenerlo. Il sistema quinto repubblicano ha più volte mostrato quanto sia complicato, per non dire impossibile, diventare presidente senza un apparato forte alle spalle. È vero che i partiti sono in generale in crisi e in Francia forse più che altrove, ma al momento se si eccettua de Gaulle nel 1965 (ma il Generale era il Generale!) solo Giscard nel 1974 è riuscito nell’impresa. Attenzione però. E’ certamente vero che i “suoi” Républicains Indépendants erano una minuscola formazione politica, ma non bisogna dimenticare che ci si trovava di fronte ad un politico radicato sul territorio, eletto per la prima volta nel 1956, ministro per un decennio sotto de Gaulle e Pompidou, insomma un insider a tutti gli effetti, che in più poté godere dello smarrimento gollista dopo la morte prematura del già citato Pompidou. Vi è un altro elemento da non trascurare. Può forse sembrare obsoleto affermare che per avere possibilità in politica bisogna ancora rappresentare almeno una categoria sociale. Macron da questo punto di vista è in alto mare. Non è assolutamente scontato che la sua popolarità si tramuti in voti. Inoltre il suo profilo da tecnocrate liberal-socialista piace molto di più ad un elettorato colto e liberal-conservatore, oggi attratto da Alain Juppé e che in passato ha scelto in maniera maggioritaria François Bayrou. Inoltre anche la sua giovane età, almeno scorrendo le indagini di opinione, sembra apprezzata più da un elettorato anziano, che da quello giovane. E infine il suo discorso di innovazione, critica al sistema e “rottamazione” (si direbbe all’italiana) senza dubbio raccoglie più consensi a destra che a sinistra.
Insomma il fenomeno Macron è il sintomo di un vecchio mondo che scompare. È lecito però chiedersi se egli, oltre alla pars destruens, rappresenti anche una pars construens. Può tramutarsi nell’emblema di un mondo nuovo che risorge? I dubbi non mancano. Il suo bilancio come ministro è modesto, più frasi ad effetto (tipo quella sui giovani francesi che devono avere l’ambizione di diventare milionari e quella sul liberalismo valore di sinistra) che provvedimenti davvero rivoluzionari. Le sue proposte assomigliano a quelle di Blair, ma arrivano con oltre venti anni di ritardo. E infine lo spazio di agibilità politica di un profilo come il suo, sembra davvero ristretto se si osserva alla storia della V Repubblica. Se la sua dovesse connotarsi come una candidatura di sinistra, le possibilità di passare al secondo turno sarebbero pressoché nulle. Se la scelta dovesse essere quella “centrista”, i molti esempi da Lecanuet a Bayrou, passando per Barre, non dovrebbero rassicurarlo. Non pochi detrattori nel PS assimilano il suo successo mediatico ad una sorta di “sindrome Royal” di ritorno. Nel 2007 Segolène ottenne una “onorevole sconfitta” al ballottaggio contro Sarkozy. La Francia affaticata dall’immobilismo di Hollande e provata da quasi due anni di attentati ed emergenze terroristiche è però oggi un Paese poco prevedibile e in grave crisi. Meglio lasciare i pronostici a sondaggisti e politologi. Al momento vi è una sola certezza: i quasi diciassette milioni di voti ottenuti da Ségolène Royal al ballottaggio del 2007 rappresentano un miraggio, per il giovane Macron. Allora che dire: “En Marche et bonne chance!”
di Luca Tentoni
di Michele Marchi
di Nicola Melloni *