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Ma esiste il centro in politica?

Paolo Pombeni - 11.11.2014
Matteo Salvini e Silvio Berlusconi

Mentre siamo impegnati a discutere quando Napolitano lascerà il Colle, come se non sapessimo che dipende da due variabili, la sua salute e la situazione politica che si lascerà alle spalle, sembra torni centrale il tema della legge elettorale. Questione importante, non c’è dubbio, e ricchissima di aspetti tecnici in cui è anche facile perdersi, ma anche un tema alla base del quale dovrebbe stare un rapporto con la realtà dello spettro politico con cui ci si vuole misurare.

Ora quello italiano è in profonda evoluzione ed è un punto che ci pare meriterebbe più considerazione di quella di cui è oggetto. In estrema sintesi esistono due quadri politici in un sistema elettorale competitivo: uno che è fondato sulla raccolta di gruppi “di interesse” ciascuno in un proprio partito; l’altro che vede i partiti come larghe coalizioni di interessi diversi che si compongono attorno a dei punti comuni.

Nella tradizione italiana postbellica,  sino agli anni Ottanta del secolo scorso (all’incirca), prevaleva il secondo modello, in cui i centri di aggregazione comune erano, almeno per convenzione, degli universi sub-culturali (cattolici, laici, socialisti, comunisti,ecc.). Non che mancassero gli “interessi”, ma si suddividevano secondo quelle linee: tipicamente avevamo sindacati cattolici, social comunisti, laici; cooperative lungo le tre direttrici; associazioni degli studenti universitari organizzate più o meno così; e via elencando. Certo all’età d’oro che durò, sempre all’incirca, fino a fine anni Sessanta, seguì un ventennio di declino, ma fu un fenomeno lento e, ammettiamolo, distruttivo più che semplificatorio.

Poi seguì un lungo ventennio di confusione in cui aumentarono i partiti di interesse, ma in genere mascherati, più o meno efficacemente, da partiti di larga rappresentanza. Il dato nuovo fu l’esplodere del numero dei partiti che tentavano di accreditarsi sulla scena politica.

Adesso la situazione sta cambiando nuovamente, perché, anche sull’onda delle novità introdotte dalla leadership di Renzi, sembrerebbe si stesse marciando verso una semplificazione (relativa) del quadro politico, con il richiamo del nuovo leader verso un partito di ampia integrazione, cosa che produce un certo sconcerto nelle altre componenti del nostro sistema.

Pare a chi scrive che una novità veramente rilevante stia nel fatto che con queste ultime trasformazioni viene messo in crisi quello che era un pilastro tradizionale che caratterizzava il sistema del nostro paese: anziché una organizzazione attorno ai due assi destra e sinistra, da noi ce n’erano tre, perché si aggiungeva “il centro”, che anzi, grazie alla lunga egemonia democristiana, ne era diventato il pilastro portante.

Molti sostengono che il venir meno del “centro” come un luogo di aggregazione autonoma di una parte del consenso politico ci porti verso un adeguamento del nostro sistema al trend internazionale in cui l’area di consenso di centro si spartisce fra una grande formazione conservatrice ed una altrettanto grande formazione progressista.

Eppure per avere questa configurazione si dovrebbe prospettare che entrambi gli schieramenti si orientino verso il rispettivo centro, cioè siano disponibili a tenere a freno gli “animal spirits” dei rispettivi pasdaran. In Italia si può dubitare che questo sia vero. Non solo per il fenomeno da non sottovalutare del grillismo, che ha realizzato una confederazione di interessi che sfugge alla tradizionale classificazione destra/sinistra, ma anche per l’assoluta debolezza del “centro” nell’organizzazione dello schieramento conservatore.

Berlusconi ha cercato a suo tempo di caratterizzare la rivolta che ha catalizzato intorno a sé come diretta contro una sinistra che si pensava prossima al potere (un timore, non certo una realtà) come una reazione di “moderati”, ma per tenerla coesa ha dovuto far ricorso ad argomentazioni populiste che spostavano l’asse a destra. Quando i “moderati” della sua formazione, o almeno una parte di essi,  hanno tentato di autonomizzarsi per ricostruire appunto il centro, non hanno avuto, almeno al momento gran fortuna.

Dove finirà dunque l’elettorato conservatore? Una parte sembra cedere alle sirene della versione italiana del lepenismo, cosa comprensibile perché la componente “paura del cambiamento” è sempre forte a quelle latitudini. Un’altra parte sembra pendere dalla parte del PD renziano, forse più per vocazione di stare col vincitore (e dunque col governo) che per convinzione nel progetto che viene proposto dall’attuale leader.

Il problema è però che ci sembra difficile che il PD possa raccogliere tutta l’area elettorale che confluiva nel vecchio centro: oltre tutto, se così fosse, si troverebbe in seri problemi con la sua base sociale tradizionale. Si può forse pensare che l’incremento dell’astensione sia dovuto a questo centro che sceglie di non schierarsi, favorendo però così al momento Renzi, ma in un futuro non si sa chi. Anche questa una prospettiva piuttosto inquietante.

Dunque il problema di ritrovare una casa per questa tradizione storica centrista, sia pure una casa modesta e poco appariscente, è una questione importante per il sistema italiano. Pensare che invece che sia meglio avere una radicalizzazione delle posizioni non sembra una opzione saggia. Non almeno per adesso.