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Luci e ombre dell’accordo di Parigi

Elisa Magnani * - 19.12.2015
Conferenza sul Clima a Parigi

L’11 dicembre si è conclusa a Parigi la ventunesima Conferenza delle Parti della Convenzione sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, già nota al grande pubblico come Conferenza sul clima di Parigi. L’attenzione mediatica, sia prima sia durante questo evento geopolitico mondiale, è stata enorme, producendo da un lato grandi aspettative e dall’altro molti dubbi sulla possibilità di raggiungere un effettivo accordo tra tutti gli stakeholder coinvolti. Il dubbio che la preoccupazione per il clima e la salute del pianeta non fosse sufficiente a superare il prevalere degli interessi economici di alcuni dei soggetti coinvolti serpeggiava infatti già prima dell’incontro e anche durante – come espresso dalle parole del presidente degli Stati Uniti – ma a Conferenza conclusa non si può che riconoscere che il timore si sia effettivamente trasformato in verità e che gli interessi di alcuni Stati in via di sviluppo o produttori di petrolio e di alcune lobby globali abbiano pesantemente condizionato le trattative. La necessità di raggiungere un accordo, infatti, ha imposto di ammorbidire alcune posizioni particolarmente spinose per alcuni paesi e stakeholder e così il bilancio finale non è rigoroso come ci si aspettava, come avrebbe dovuto essere, e le questioni veramente pregnanti - carbon taxes, limiti obbligatori per i singoli paesi, sanzioni - sono scomparse in fretta dal tavolo delle trattative.

L’accordo, comunque, si è alla fine trovato, un accordo probabilmente poco efficace a contenere entro il 2020 l’aumento delle temperature al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali e, soprattutto, un accordo non vincolante - che sarà aperto alla firma a New York dal 22 aprile 2016 al 21 aprile 2017. Uno degli aspetti più criticati è proprio il fatto che gli impegni di riduzione presi da ciascun paese attraverso gli INDC (Intended Nationally Determined Contributions) non siano obblighi vincolanti, legati a sanzioni nel caso non vengano rispettati. Particolarmente critico e criticato è anche il fatto che non siano previste forme di controllo da parte degli organi della Convenzione sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite ma solo verifiche quinquennali che verranno effettuate da parte degli Stati stessi, i quali dovranno presentare un report contenente l’analisi dei progressi raggiunti rispetto agli obiettivi, ed eventuali proposte di revisione delle strategie volte a realizzarli.

Diversi paesi, prevalentemente in via di sviluppo, inoltre, non hanno ancora presentato i propri INDC e l’accordo li invita a farlo quanto prima al fine di avviare le strategie individuate a partire dal 2020, poiché da quella data i piani dovranno essere rivisti per raggiungere un obiettivo di riduzione superiore. Su questo punto l’accordo di Parigi è piuttosto vago, a causa dell’opposizione di Cina, India e altri paesi che formalmente stanno ancora attraversando una fase di transizione economica, i quali non vogliono vedersi limitati da pesanti investimenti in politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici.

Lo sconcerto maggiore da parte di molti commentatori riguarda la mancanza di un impegno preciso in termini numerici sulle riduzioni delle emissioni di gas serra: viene riconosciuta sì l’importanza di mantenere l’innalzamento delle temperature globali “ben al di sotto” dei 2°C entro il 2020 ma si invita anche a considerare che un contenimento entro 1,5°C sarebbe ancora meglio, lasciando molto vago il livello di impegno di ognuno. A questo proposito, è stato calcolato che le riduzioni di gas serra ipotizzate dagli INDC depositati fino ad oggi siano sufficienti solo per contenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2,7°C rispetto ai livelli pre-idustriali.

Ancora più vago è l’accenno alla necessità di raggiungere il picco delle emissioni di gas serra quanto prima - per quanto secondo alcuni studiosi la Cina, ad esempio, lo farà solo nel 2030 - così da poter iniziare a beneficiare rapidamente delle azioni di mitigazione individuate negli INDC. Queste dovrebbero portare a un repentino taglio della produzione di inquinanti atmosferici, grazie anche al bilanciamento globale tra le fonti di gas serra e i carbon sinks, le strategie di imprigionamento delle emissioni che erano già parte integrante dei meccanismi di clean development promossi dal protocollo di Kyoto.

Un altro aspetto critico, già citato prima della Conferenza come un possibile scoglio su cui si sarebbero arenate le trattative, è la questione economica: a questo proposito l’accordo prevede che i paesi meno sviluppati ricevano un aiuto economico da quelli più sviluppati, pari a 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2020, quando si spera di poter aumentare la quota di aiuti. Tuttavia, nonostante l’impegno di Obama in tal senso, alcuni commentatori hanno evidenziato che questa cifra, che al momento non è ancora stata raggiunta dai donors internazionali, viene oggi superata dalla spesa globale in armamenti e mezzi di distruzione di massa ed è difficile immaginare che nel futuro la situazione possa invertirsi.

Infine, va citato che, pur menzionando le necessità particolari dei paesi in via di sviluppo, dei piccoli Stati insulari e dei gruppi più vulnerabili della Terra come i popoli indigeni e le donne, l’accordo non individua forme di empowerment e partecipazione che ne facciano attori chiave nelle azioni di resilienza climatica.

A solo una settimana dalla sua conclusione, il grande clamore mediatico che ha coinvolto la Conferenza di Parigi si è ormai spento, lasciando a tutti i cittadini del pianeta la responsabilità di giocare un ruolo nella lotta ai cambiamenti climatici. Infatti, nonostante l’opinabilità dei risultati raggiunti, se un bilancio positivo si può trarre da questo incontro è l’aver creato risonanza globale sulla necessità di una lotta condivisa ai cambiamenti climatici, in cui ciascuno può e deve intervenire. Probabilmente, come questa conferenza ha dimostrato, con l’incapacità dei leader mondiali di prendere decisioni significative e vincolanti, le grandi azioni concertate a scala globale non sono la soluzione vincente per salvare il pianeta dai danni creati da scelte antropiche scellerate; una proposta forse di maggiore successo potrebbe essere piuttosto l’integrazione di azioni di mitigazione e adattamento climatico a scala locale che però dovrebbero raggiungere in tempi rapidi una massa critica significativa, tale da condizionare con un movimento bottom-up le scelte che al momento la politica e l’economica non riescono a prendere.

 

 

 

 

* Professore associato di Geografia presso l’Università di Bologna