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Lo scrutinio permanente

Luca Tentoni - 25.05.2019
elezioni europee 2019

Il voto del 26 maggio non esaurisce il continuo ciclo elettorale che ormai caratterizza la politica italiana. Fino al 1970, gli unici appuntamenti nazionali con le urne erano riservati alle elezioni per il rinnovo di Camera e Senato, che si tenevano regolarmente ogni cinque anni (1948, 1953, 1958, 1963, 1968). C'erano poi le elezioni comunali e provinciali, alle quali veniva attribuito un valore non trascurabile in rapporto al quadro politico generale, come dimostrano l'"operazione Sturzo" (fallita) del 1952 in vista delle comunali di Roma (che determinò la rottura insanabile fra De Gasperi e il Pontefice Pio XII) e l'attenzione che molti studiosi dell'epoca (fra tutti, Celso Ghini, mai ricordato abbastanza, autore di elaborazioni di gran pregio e precisione per il Pci) cominciavano a dedicare ai "test" locali. Con un'affluenza intorno o superiore al 90%, il popolo italiano andava alle urne ogni cinque anni per un esercizio di democrazia che assumeva un grande valore anche sul piano simbolico. Le strategie dei partiti erano basate sulla durata della legislatura, sia pure - come si diceva - tenendo conto delle "piccole elezioni di medio termine" in città e province. Dal 1970 con l'elezione dei consigli regionali (15 regioni a statuto ordinario), dal 1972 con le prime elezioni politiche anticipate (seguite da altri quattro scioglimenti anticipati: 1976, 1979, 1983, 1987), dal 1974 col primo referendum abrogativo e dalle europee (1979) si è creato un percorso ad ostacoli, stante la difficoltà di riunire nello stesso anno tutte le consultazioni. Così, nel 1970 si è votato per le regionali, nel 1972 per le politiche, nel 1974 per il referendum, nel 1975 per le regionali, nel 1976 per le politiche, nel 1978 per i referendum, nel 1979 per le politiche e le europee, nel 1980 per le regionali, nel 1981 per i referendum, nel 1983 per le politiche, nel 1984 per le europee, nel 1985 per le regionali e per il referendum sulla scala mobile, nel 1987 per politiche e referendum, nel 1989 per le europee, nel 1990 per regionali e referendum, nel 1991 per i referendum elettorali, nel 1992 per le politiche, nel 1993 per altri referendum, nel 1994 per le politiche, nel 1995 per regionali e referendum, nel 1996 per le politiche e così via. Se fra il 1946 (Costituente e referendum istituzionale) e il 1969 le consultazioni avevano riguardato solo sei anni su ventiquattro (il 25% contro il 75% senza appuntamenti nazionali), fra il 1970 e il 1996 (27 anni) non si è votato solo nel 1971, 1973, 1977, 1982, 1986, 1988 (il 22%). Negli ultimi 23 anni, dal 1997 compreso ad oggi, non ci sono state campagne referendarie (abrogative o su leggi costituzionali) o politiche o regionali (statuto ordinario) solo nel 1998, 2002, 2007, 2012, 2017 (21,7%). Tutto ciò, considerando che le elezioni comunali e provinciali hanno continuato a svolgersi (queste ultime, fino all'inizio di questo decennio, quando si è passati al voto di secondo grado) e ad essere "test" politici. E c'è da aggiungere che dopo il 2010 il numero delle regioni chiamate a rinnovare il proprio consiglio nello stesso giorno è progressivamente diminuito (il caso del Piemonte 2019 è solo uno dei tanti; nel 2020 le regioni che voteranno contemporaneamente saranno poche). In pratica, la "campagna elettorale permanente", che è già uno stile e un approccio comunicativo, è anche dovuta all'impossibilità di concentrare gli appuntamenti in uno, massimo due anni (le europee non si possono spostare, peraltro). Chiedere alla classe politica di non pensare alle elezioni è oggi praticamente impossibile, perchè ogni anno ci sono 78 probabilità su cento che si svolgano una o più consultazioni importanti. Né si può svilire il senso e il significato dei singoli appuntamenti: decidere del destino di una legge o di una singola norma (referendum), di modifiche alla Costituzione, di chi governerà i comuni e le regioni, di come sarà formato il Parlamento nazionale sono tutte questioni importantissime. Però la loro concentrazione impedisce, da un lato, la creazione di un ciclo economico-politico e un tentativo di dare respiro alle politiche pubbliche; dall'altro, il mancato accorpamento rischia di aumentare l'astensionismo, soprattutto se quella di votare diventa - anzichè una grande occasione per far sentire la propria voce - un'abitudine, se non una routine. Il tutto, in mancanza di un grande senso civico diffuso: non è certo un caso che il Parlamento abbia recentemente dovuto ridare spazio e nuova articolazione, nelle scuole, all'iniziativa voluta da Moro nel 1958. Le istituzioni si vivono, con il voto e con l'agire quotidiano. Ecco perchè gli accorpamenti (che richiedono, va detto, modifiche anche di rango costituzionale) possono fare del bene alla nostra sempre più fragile coscienza democratica.