Quale spazio per la virtù nella società libera?

La modernità ha consentito all’uomo di diventare adulto. Essa ha liberato le individualità, ha reso possibile la presa di consapevolezza che ciascun individuo è una irriducibile sostanza pensante ed agente con peculiarità, interessi, passioni e obiettivi che solo a lui appartengono e in qualche misura contribuiscono a definirlo. Il “rischiaramento delle menti” è stata una straordinaria conquista, foriera di mutamenti epocali e prodigiosi traguardi raggiunti. La società libera affonda le sue origini anche in questo processo. Nondimeno, come qualsiasi conquista positiva, essa cela anche un lato oscuro, un’insidia dalle molteplici facce e dagli esiziali risvolti.
La libertà dei moderni, infatti, pone non pochi dubbi sulla sua possibile conciliabilità con concetti quali virtù, bene comune e giustizia. L’individualismo, si sente sovente ripetere, ha rotto i granitici lacci con la tradizione, ha spazzato via qualsiasi possibilità di (ri)costituzione di un orizzonte di senso condiviso, ha eroso le basi per la (ri)fondazione di un bene comune contenutisticamente pieno ed eticamente fondato. In definitiva, ha dato vita al regno di anomia e all’espansione di un greve disorientamento.
Ora, è irrefutabile che la società libera sia l’antitesi della società chiusa, e quindi la tentazione di ripristinare i termini che permeavano e caratterizzavano una comunità rigida, statica e collettivistica non può che essere rifiutata. Purtuttavia, l’individualismo non è di per sé la negazione dell’ethos comunitario, non equivale alla rottura conclusiva con il passato, non si basa sull’idea di un individuo astratto, disancorato e catapultato nella realtà sociale come un “io” fatto e finito.
L’uomo ha natura «incarnata, dialogica, temporale», come ha scritto efficacemente Charles Taylor in un classico come Il disagio della modernità. Nulla da eccepire da un punto di vista squisitamente individualistico. Anzi, numerosi liberali sono venuti sul punto proprio per sostenere con forza tutto questo. Ortega y Gasset, Röpke e Nisbet, certamente, ma posizioni del tutto simili possono essere lette financo in un autore come Hayek che ha parlato, non a caso, di un “individualismo vero” – il quale presuppone che l’individuo diviene ciò che è solo in virtù del vivere in società – in contrapposizione a un “individualismo falso” che sovrastima (ed erroneamente concepisce) l’individuo come essere isolato e totalmente indipendente.
Il fatto di vivere in comunità, oltre che essere probabilmente una necessità umana, è prima di tutto un dato fattuale. Come mostrato da Ortega, ad esempio, l’uomo suole vivere a debito di chi è venuto prima e in qualche modo beneficia di costumi e usi che, con il benessere accumulato e la civiltà raggiunta, vengono sempre più dati per scontati. Non si comprende, insomma, che l’uomo non è mai un primo uomo e che, con le parole di Ortega, «rompere la continuità con il passato, voler ricominciare di nuovo, significa aspirare al declino». Tale è la patologia che affligge l’individuo moderno. La domanda è: questo è l’esito dell’individualismo o, piuttosto, del processo di eguagliamento delle condizioni che ha promosso la degenerazione dell’individualismo medesimo?
A detta di chi scrive, evidentemente, l’“uomo-massa” è un individuo che non ha introiettato le condizioni basilari dell’individualismo “vero”, sano e maturo. Tocqueville aveva già intuito gran parte di tutto questo. L’illusione di poter arrivare a comprendere il reale con la sola ed esclusiva potenza della propria ragione, le vertigini che la prosperità arreca nelle menti (e nelle pance soprattutto) di molti, l’autarchia soggettiva che si viene a determinare sono perigli che attentano alla società libera, una società consustanzialmente precaria perché retta su palafitte.
Se così è, la vera virtù di una tale società è quella che vede i suoi componenti interiorizzare il senso del limite – propria di un individuo intrinsecamente ignorante e fallibile –, la responsabilità – propria di chi comprende che i traguardi raggiunti hanno richiesto alacrità e fatica, oltre al fatto che sono spesso prodotti da chi ci ha preceduti: da qui l’importanza del rispetto per il passato e per la memoria storica – e l’umiltà – che si confà a chi concepisce la civiltà non come un dato di fatto naturale, bensì come un prodotto dell’evoluzione. Senza queste virtù, la società libera non potrebbe esistere. Essa dà la possibilità a ciascun di poter plasmare la propria vita, sebbene solamente in parte, giacché il destino fuoriesce dal totale orientamento che l’uomo a esso vorrebbe dare. «Una delle caratteristiche di una società libera è che gli obiettivi degli uomini sono aperti a tutti», scrisse Hayek. Proprio in ragione di ciò, l’uomo deve saper utilizzare con equilibrio, moderazione e raziocinio la libertà di cui può beneficiare in un tale contesto, giacché, come disse Popper, «il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza».
La società libera, allora, non può che reggersi sulla capacità dell’uomo di autolimitare i propri desideri. Lo scrisse molto bene Burke asserendo che «la società non può esistere se non si pongono dei freni allo scatenamento degli appetiti; […] è nell’ordine delle cose che gli uomini privi di senso del limite non possano essere liberi. Le loro passioni forgiano le loro catene». Se non siamo disposti a venir a patti con un fatto incontrovertibile, ovvero con l’impossibilità umana di poter addivenire alla perfezione, probabilmente non saremo nemmeno in grado di preservare la società libera.
* Studente del corso magistrale in “Scienze internazionali e diplomatiche” presso l’Università di Bologna, sede di Forlì. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi.
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