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27 marzo 2024
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Le sfide dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante

Massimiliano Trentin * - 19.06.2014
Iraq e situazione ISIL

La conquista della provincia di Ninive, di Mosul, seconda città dell’Iraq, di Tikrit, città natale di Saddam Hussein,  e la marcia verso la capitale Baghdad da parte degli jihadisti dello Stato islamico in Iraq e nel Levante rappresenta uno degli eventi più importanti degli ultimi anni e costituisce una sfida di enormi proporzioni sia per i territori e le popolazioni direttamente coinvolte sia per tutta la comunità internazionale: non solo “occidentale”. L’espansione territoriale, militare e finanziaria delle forze jihadiste riporta alla ribalta una serie di questioni chiave del passato politico della regione e del suo futuro.

 

Anzitutto, dimostra la fragilità della divisione del mondo arabo in stati-nazione. Disegnati a penna dalle cancellerie francesi e britanniche durante la Prima Guerra Mondiale, i confini attuali dell’antica Mesopotamia rispecchiarono più gli interessi di potenze straniere che non la reale configurazione sociale e comunitaria di quei territori. E tuttavia, lo sviluppo coloniale e postcoloniale di governi centrali e dei relativi eserciti nazionali ha garantito l’inviolabilità di questi stessi confini tracciati sulla sabbia. Le comunità tribali e confessionali ovviamente li attraversano quotidianamente in modo più o meno legale, e non potrebbe essere diversamente dato che la fortuna e la ricchezza della regione nasceva proprio dal transito di beni, uomini e idee dalle coste del Mediterraneo e dall’entroterra anatolico verso Aleppo, Mosul o la valle dell’Eufrate per convergere a Baghdad e via fino all’Impero Persiano, al Golfo persico per approdare nelle Indie. Gli stessi tentativi di federazione durante l’epoca del nazionalismo arabo prevedevano l'apertura dei confini senza però abolirli del tuto: lo stato-nazione era riconosciuto come l’unità di base del moderno sistema internazionale e come tale bisognava addartivisi. Anche le forze dell’Islam Politico, tanto moderne quanto i loro rivali laici, nella loro maggioranza accettarono l'esistenza delle istituzioni statali e nazionali.

Oggi, la costituzione de facto di uno stato islamico che unisce la valle dell’Eufrate siriano con il nord-ovest iracheno rappresenta la prima vera sfida “mortale” all’ordine territoriale del Medio Oriente dai tempi del panarabismo. Una volta era la lingua araba (o turca, iraniana) criterio di base per la costruzione della nazione e dello stato. Ora l'ISIL propone una nuova entità il cui criterio esclusivo è il carattere “islamico” e che non prevede la possibilità di altri criteri di affiliazione politica e sociale (lingua, orientamenti politici o altro) se non l’essere musulmani, sunniti, e osservanti rigorosi delle più rigide e integraliste interpretazioni dell’Islam. La riconfigurazione territoriale su base confessionale significa aprire le porte alla guerra civile in tutto il mondo arabo e fomentare ancor di più la divisione tra comunità sunnite, sciite, cristiane ecc. I disastri di questa visione della comunità politica sono ben evidenti nella quotidianità dell'Iraq post-invasione USA o della Siria in guerra. Non è un caso che la brutalità delle forme di governo dell’ISIL nella città siriana di Raqqa abbia dato vita a proteste popolari, poi represse nel sangue e nel simbolismo delle decapitazioni, amputazioni e perfino crocifissioni dei dissidenti. Le città irachene di Falluja o Ramadi, invece, hanno visto la popolazione più cauta nei confronti dell'ISIL poiché sono state finora escluse di fatto da qualsiasi processo decisionale della capitale Baghdad.

 

L'avanzata spettacolare dei jihadisti fino alla porte di Baghdad mette in luce anche un altro fattore chiave della politica medio orientale: l'importanza dell'esercito nazionale. Le forze islamiste radicali sono sempre esistite e facilmente continueranno ad esistere come espressioni radicali di partecipazione politica. Oggi, la loro forza deriva da un lato dall'incapacità dei regimi arabi di includere nelle istituzioni nazionali altre forze che non siano loro stessi, dall'altro lato di garantire la sicurezza del territorio. Nel caso iracheno, l'unica istituzione oltre al Partito Ba'th che dalla fine degli anni Settanta fu in grado di garantire una minima integrità territoriale (tranne il nord curdo) era l'esercito nazionale. La sciagurata decisione, tutta ideologica, di Washington di smantellarlo all'indomani della conquista di Baghdad e farlo ricostruire su base etnico-confessionale, per lo più sciita, lasciò spazio a quell'insurrezione armata che poi contribuì a far fallire i piani statunitensi nel Paese arabo. Ritirati alla chetichella i GIs, resta un esercito frammentato, non più riconosciuto come garante dell'unità nazionale e che, appunto, si è sfaldato alla prima offensiva organizzata dei jihadisti: ben armati, ben pagati, disciplinati e motivati. In Siria la situazione è diversa. Nel regime di Damasco era l'esercito a prevalere sul Partito Ba'th ed è l'esercito regolare siriano ad aver permesso la sopravvivenza del regime in questi tre anni di guerra civile e di passare oggi alla controffensiva generale e alla riconquista della grande città di Aleppo. Nelle zone curde in Siria e in Iraq sono ancora le milizie dei peshmerga a garantire la stabilità dei territori e ad aver contenuto l'avanzata dei jihadisti. E' dunque la coesione tra istituzioni politiche e forze armate a fare la differenza in un Medio Oriente segnato da conflitti insoluti e mancanza di sviluppo e libertà per le forze popolari.

 

Ogni previsione su dove potrà arrivare l'ISIL è difficile. Sul campo si registra l'estrema abilità dei suoi dirigenti di prendere possesso di quelle zone importanti per le risorse naturali (campi petroliferi) e per le vie di comunicazione da cui trarre ingenti capitali con cui poi finanziare la propria espansione militare e territoriale. Tuttavia, le pratiche di governo brutali e discriminatorie si scontrano con l'estrema complessità del tessuto sociale della moderna Mesopotamia e proprio questo è il limite ultimo che rende improbabile la sopravvivenza dell'ISIL come forza di governo. Inoltre, la sua avanzata e creazione di un emirato islamico tra Siria e Iraq sta avendo come effetto la costruzione di un fronte comune tra alleati tanto improbabili quanto accomunati dal desiderio di eliminare la minaccia dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante: Stati Uniti d'America, Russia, Iran, regime di Damasco, governo di Baghdad. Un fronte comune che, sebbene sia tattico, potrà portare arruolare le forze curde in Siria e Iraq e portare a più miti consigli il governo di Erdogan, via i militari turchi, o le petro-monarchie del Golfo che finora hanno giocato col fuoco dell'estremismo sunnita. Ancora una volta, tutti a difesa dei confini di sabbia degli stati medio orientali. Confini da attraversare, per l'ovvia comunanza di chi vi abita o voglia sviluppare la regione, ma non da cancellare. Almeno per il momento.

 

 

* Ricercatore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Bologna