Il dottorato, una risorsa non sfruttata
L’ANVUR ha pubblicato poche settimane fa il Rapporto sullo stato del sistema universitario. Il rapporto tratta anche del dottorato di ricerca, istituito, come si ricorderà, con la ‘382/ 1982. Recitava la legge Ruberti: “E' istituito il dottorato di ricerca quale titolo accademico valutabile unicamente nell'ambito della ricerca scientifica.” Questa definizione conteneva in sé il limite della innovazione: mentre introduceva anche nel nostro ordinamento accademico il PhD (per diventare poi, con il “Bologna process”, il terzo livello della formazione universitaria) lo confinava all’ambito della carriera universitaria impedendone così, sul nascere, uno sviluppo verso la professione e la ricerca extra universitaria. E infatti, per oltre venti anni, il PhD ha fornito al nostro sistema universitario quel “periodo di prova” che i ruoli a tempo indeterminato non consentivano. Questa configurazione non poteva certo resistere alla “grande crisi”, ai tagli ai bilanci degli atenei e ai limiti imposti al turnover. Il problema occupazionale dei PhD è diventato quindi e finalmente un (nuovo) problema nazionale, come dimostrato, inter alia, dalle iniziative del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e della Regione Emilia e Romagna con lo strumento dell’alto apprendistato.
I tagli hanno portato a una pesante contrazione del numero di posti a disposizione e di borse di studio. Dal 2008 al 2014 la riduzione delle posizioni bandite in tutta Italia è stata del 19%, arrivando a picchi del 38% nelle regioni del Sud Italia, mentre il numero di borse di studio è calato del 16% anche qui con un differenziale molto più negativo nelle regioni del Sud. L’ADI, nella Quarta indagine annuale ADI su Dottorato e Post-Doc stima nel -41% la riduzione del numero di corsi di dottorato causati dalla applicazione dei requisiti minimi previsti dal DM 45/2014: non meno di 4 borse di studio per la attivazione e comunque non meno di 6 in media su base di Ateneo, e un rapporto non inferiore a 3:1 tra posti “con borsa” e “senza borsa”.
A parte la difficoltà ad accettare criteri meramente finanziari per l’attivazione o meno di un dottorato di ricerca, si tratta di riduzioni comprensibili solo nell’ottica di una riduzione forzata della domanda interna dall’università: meno turn-over previsto, meno PhD richiesti. Che questa sia la strada giusta per uscire dalla crisi è tutto da dimostrare.
Ma qual è il mercato del lavoro dei dottori di ricerca? E quali le differenze rispetto ai laureati? AlmaLaurea ne ha analizzato le performance grazie alla XVI Indagine sulla condizione occupazionale (condotta nel 2013 e relativa a circa 450000 laureati di 64 Atenei intervistati a 1, 3 e 5 anni dal titolo). I dottori di ricerca sono individuati considerando i laureati magistrali biennali che, a cinque anni dal titolo, hanno dichiarato di aver concluso un corso di dottorato. I dati confermano, fino a livello di macro-area disciplinare, una buona valorizzazione dei dottori, in particolare in termini retributivi (1.659€ netti al mese, contro 1.466€ dei laureati) e di efficacia del titolo (per l’80% dei dottori il titolo risulta efficace, contro il 53% dei laureati).
È però vero che, allo stato attuale, lo sbocco prevalente, per i PhD, resta l’ambito universitario: il 41% degli occupati si dichiara infatti ricercatore o docente. Quasi un dottore su tre svolge invece una professione di alto livello, in particolare come ingegnere o architetto. Nei ruoli di livello più modesto (professioni tecniche o esecutive) è occupato “solo” il 13% dei dottori (contro il 44% dei laureati!).
Nell’intervallo considerato, il settore pubblico, pur offrendo minore stabilità contrattuale, consente ai dottori migliori retribuzioni e più elevata efficacia. Il dubbio è che le aziende private, troppo spesso, non riescano a valorizzare compiutamente i dottori di ricerca, molti dei quali, infatti, ritengono che solo all’estero vi siano concrete opportunità lavorative. Un dubbio lecito se si considera che, secondo dati Eurostat, nel 2012 in Italia solo il 24% dei manager era in possesso di una laurea, contro il 52% della media europea a 15 Paesi; e che, secondo uno studio di Banca d’Italia, i manager laureati hanno il triplo di probabilità di assumere laureati.
Laureati magistrali biennali del 2008 intervistati a cinque anni dal titolo: guadagno mensile netto per macro-area disciplinare e partecipazione a dottorato di ricerca (valori medi in euro)
fonte: XVI Indagine AlmaLaurea. Considerati solo quanti hanno cominciato l’attuale attività dopo la laurea e lavorano a tempo pieno.
Fin qui le azioni ministeriali per affrontare la crisi sono state concentrate sui tagli all’università e quindi anche sulla riduzione del numero di PhD. Nella ottica di ridurre il precariato ha una sua logica. Ma è quello che serve al Paese? Se, come sostengono in tanti, “la crisi è una opportunità”, allora sarebbe meglio prendere l’occasione per azioni positive che favoriscano la creazione di un mercato del lavoro per i PhD, cioè per “la capacità di fare ricerca”.
Quali? Per esempio incentivi per la mobilità università-imprese; meccanismi di cofinanziamento pubblico-privato; percorsi favorevoli curriculari per l’immissione nelle amministrazioni pubbliche e nel terziario (che hanno, non meno delle imprese, grande bisogno di innovazione); integrazione della formazione con elementi di mercato, di progettazione, di computer science, e competenze linguistiche; riduzione dei tempi di percorrenza universitari (3+2+3 deve fare 8 non 10 o 12…) per completare il percorso con una età adeguata al primo ingresso nel mondo del lavoro; sburocratizzazione delle procedure di selezione ora complesse e spesso inutili; differenziazione per obiettivi, costi, e modello formativo dei dottorati delle aree umanistiche, giuridiche, sociali ed economiche rispetto a quelli delle aree tecnico scientifiche e mediche. Ammodernare e potenziare non ridurre. Il paese ha bisogno di immettere ovunque (imprese, ma anche banche, amministrazioni ed enti locali) persone capaci di darsi obiettivi di ricerca, di porli nel contesto nazionale e internazionale, di dotarsi degli strumenti necessari, e anche di correggere il percorso procedendo. Innovatori quindi. Se si comprende questo, e si agisce di conseguenza, il PhD può passare in breve tempo da ennesima risorsa sprecata del nostro sistema formativo a investimento sociale. Si può fare.
* Dario Braga Professore di Chimica e Prorettore alla Ricerca dell’Università di Bologna
** Silvia Ghiselli Responsabile Indagini e Ricerche Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea
di Paolo Pombeni
di Dario Braga * e Silvia Ghiselli **
di Massimiliano Trentin *