Le primarie nello scenario politico italiano
Le elezioni primarie sono oramai da tempo un appuntamento politico frequente nel nostro paese.
Il caso più recente, quello ligure, sta ancora tenendo banco sui giornali a causa delle irregolarità verificatesi in alcuni seggi e della conseguente uscita dal Partito Democratico di Sergio Cofferati.
In ogni caso se è vero che le primarie sono diventate “famose” solo nel 2005, prima con l’appuntamento regionale in Puglia a gennaio, poi con quello nazionale in ottobre, sono in realtà arrivate nel nostro paese negli anni ’90 a livello comunale. La larga diffusione che progressivamente hanno avuto negli anni 2000 è stata facilmente associata dalla stampa alla cosiddetta crisi dei partiti, partendo dalla facile considerazione che questo metodo di candidate selection è nato negli Stati Uniti, dove i partiti hanno sempre avuto strutture più leggere dei nostri.
In America però, al contrario che in Italia, le primarie sono “pubbliche”, ovvero regolate da leggi statali e il loro risultato è quindi vincolante. La pubblicità delle primarie e il loro utilizzo da parte sia dei democratici che dei repubblicani, facilita l’evitarsi di fenomeni di “inquinamento” da parte di elettori dello schieramento avverso.
Le primarie italiane soffrono invece delle due caratteristiche opposte: sono primarie “private” (solo in Toscana si sono avute primarie pubbliche, regolate con una legge regionale del 2004, abrogata dalla nuova legge elettorale che prevede le preferenze), ovvero organizzate e regolate interamente dai partiti, e vengono fatte da una sola parte politica (anche il Movimento 5 Stelle ha in realtà utilizzato il sistema in più casi, a differenza del centrodestra). In aggiunta a ciò il PD ha da sempre optato per primarie “aperte”, che permettono la partecipazione non solo degli iscritti, ma di chiunque voglia recarsi al voto, per quanto sia solitamente richiesto il pagamento di un piccolo contributo e la sottoscrizione di un documento d’intenti (talvolta anche una pre-registrazione). Quest’ultima caratteristica ha da sempre favorito la più ampia partecipazione elettorale, permettendo al/ai partito/i organizzatore/i di utilizzare le primarie come leva per la futura campagna elettorale; allo stesso tempo costituisce una debolezza, non potendo facilmente individuare l’area dei simpatizzati e rischiando (o guadagnando, a seconda dei gusti) la partecipazione di cittadini di centro-destra.
Quello che è accaduto in Liguria (ci si riferisce qui non al valore giudiziario della vicenda, quanto al suo valore politico) e che si teme possa verificarsi anche in Campania non è d’altronde una novità, seppure stavolta il fenomeno sembra avere dimensioni più consistenti. In ogni caso già nel 2009 ad esempio nelle primarie comunali di Riccione e in quelle di Firenze, vinte da Renzi, si erano recati al voto anche elettori di centrodestra. Secondo il sondaggio condotto all’epoca da Candidate and Leader Selection nei seggi del capoluogo toscano, il 5% dei consensi di Renzi arrivava da persone che si dichiaravano di centrodestra. Un dato che può essere plasmato a seconda della strategia politica che si persegue, vedendolo come un pericolo inquinamento o al contrario come un positivo allargamento del consenso per il partito grazie a personalità di stampo nuovo. Su Firenze all’epoca si tendeva a fare una ragionamento molto semplice: dando per scontato l’esito delle successive elezioni amministrative, era comprensibile che alcuni elettori centristi decidessero di scegliersi già alle primarie quello che molto probabilmente sarebbe diventato anche il loro sindaco.
Questa tornata di primarie tende quindi a riproporre la discussione sulla necessità di definire regolamenti chiari. Un problema annoso, che si è ripresentato molteplici volte in questi anni e che scaturisce proprio dalla natura privatistica delle primarie italiane.
L’apertura delle primarie ha in ogni caso permesso il buon successo di questo metodo di selezione. Quelle dell’Unione del 2005, le cosiddette primarie di Prodi, videro la partecipazione di oltre 4 milioni di persone e, se il loro esito fu scontato, servirono però al vincitore ad ottenere il necessario consenso popolare per legittimare la sua leadership all’interno dell’ampia coalizione di centrosinistra. Un obiettivo tutt’altro che secondario, che primarie più competitive degli ultimi anni non sempre hanno garantito.
Le più recenti primarie nazionali hanno comunque avuto buoni risultati in termini di partecipazione: al primo turno delle primarie della coalizione Italia Bene Comune del 2012 (quelle vinte da Bersani) furono superati i 3 milioni di elettori; a quelle del PD del 2013 per la scelta del segretario nazionale (quelle vinte da Renzi) si presentarono circa 2 milioni e 800mila cittadini.
Cosa possiamo aspettarci in futuro? Le primarie piacciono, questo va detto. I molteplici exit poll di questi anni mostrano che chi si reca ai seggi è solitamente convinto che siano un sistema utile a rinnovare la politica in Italia. Inoltre il sistema tende a fidelizzare i partecipanti: chi partecipa una volta tende a partecipare anche alle successive.
C’è inoltre da considerare che in vista delle ultime elezioni politiche, quelle del 2013, ben tre partiti (PD, SEL e M5S) hanno utilizzato questo metodo di selezione delle candidature anche per la scelta dei candidati parlamentari. Il loro utilizzo va quindi espandendosi al di fuori del cerchio delle cariche monocratiche.
Per quanto lo scenario politico italiano sia particolarmente mutevole, non sembra ipotizzabile al momento una riduzione consistente nell’utilizzo delle elezioni primarie, quanto meno per la selezione delle cariche monocratiche. Per il resto molto dipenderà dalla previsione o meno dell’utilizzo delle preferenze nei futuri sistemi elettorali.
* Asia Fiorini è membro dello standing group Candidate and Leader Selection della Società Italiana di Scienza Politica.
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