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17 aprile 2024
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Le conseguenze dei race riots

Arnaldo Testi * - 05.10.2016
Race Riots

Gli ultimi race riots nelle città americane sono affari piuttosto limitati, rispetto alle proteste pacifiche. Secondo i giornali, gli incidenti più grossi coinvolgono qualche centinaio di persone, il che vuol dire forse non più di cento. Se si guardano con attenzione i video, si riconoscono poche decine di individui, in genere maschi, sempre gli stessi, che si spostano di qua e di là. Sono anche affari piuttosto auto-punitivi. A essere colpiti sono infatti obiettivi sotto casa, negozi soprattutto, forse qualche grande magazzino di catena, questo sì di proprietà “straniera”. Ma nel complesso l’orizzonte della violenza è parrocchiale, non esce dal quartiere, non attacca i luoghi del potere cittadino laggiù, downtown.

 

E tuttavia i riots fanno notizia, bucano la routine del news cycle, portano le proteste e le fiamme e le sirene e le botte dei tafferugli nei telegiornali serali, evidenziano i problemi, in questo caso i comportamenti sconsiderati e omicidi della polizia e la sottostante tensione razziale. Mettono a nudo le strutture bianche del governo locale, quando sono bianche. Fanno esplodere le contraddizioni in quelle città in cui i sindaci, i capi della polizia, gli stessi poliziotti che premono il grilletto sono anch’essi neri, e allora la cosa è un po’ più complicata. Sollecitano riflessioni sulle radici di tanta rabbia – e provvedimenti riparatori e forse, chissà, qualche intervento riformatore non banale.  

 

Questa è una delle conseguenze dei riots, una conseguenza che hanno sempre avuto.

 

Le rivolte urbane degli anni sessanta, molto più grandi e violente e distruttive di quelle di oggi, con decine di morti ogni anno, altrettanto parrocchiali e inward-looking, hanno fatto senza dubbio la loro parte nel provocare un’ondata di importanti riforme sociali, l’estensione del welfare, il miglioramento delle scuole, l’affirmative action, le politiche clientelari e infine di partecipazione elettorale da parte del partito democratico di Lyndon Johnson. Era così evidente che le cose stessero così, che c’erano attivisti e intellettuali, community organizers e sociologi radicali che lo dicevano in chiaro: per ottenere qualcosa i poveri devono rendere ingovernabile la città, i riots sono la voce di chi non ha voce.

 

Naturalmente al mondo non ci sono solo loro, i protagonisti delle proteste vivaci nelle strade e di certe riforme nei governi. Sarebbe troppo semplice. Ci sono anche gli abitanti dei quartieri adiacenti o anche un po’ più lontani, bianchi di vecchia generazione o appartenenti a etnie di più recente immigrazione che si sentono minacciati da ciò che accade davanti a loro o che vedono in televisione. E che hanno paura. Non sono ricchi, i ricchi vivono altrove, sono proletari o ceti medio-bassi. Hanno i loro problemi e magari sono anche, come accade a tutti, sotto sotto un po’ razzisti. Qui le rivolte generano sospetti e ostilità, radicalizzano le opinioni, le posizioni politiche, il voto.

 

Dopo le grandi rivolte degli anni sessanta, era così evidente che le cose stessero così che c’erano politici e intellettuali conservatori che lo dicevano in chiaro: si rivolgevano alla “maggioranza silenziosa” contro le minoranze rumorose, invocavano “legge e ordine”, blandivano l’elettorato bianco. Su queste parole d’ordine hanno costruito le fortune popolari del partito repubblicano di Nixon e Reagan, dei movimenti della nuova destra, della National Rifle Association e della diffusione di armi da fuoco in mani private. I drammatici fatti di Los Angeles del 1992 hanno rinfrescato la memoria e confermato il trend. Dopo i riots degli ultimi anni, l’appello a “legge e ordine” è ricomparso nel vocabolario di Donald Trump.

 

Un’altra delle conseguenze dei race riots? La polarizzazione politico-elettorale a base razziale.

 

 

 

 

* Arnaldo Testi insegna storia degli Stati Uniti all’Università di Pisa.